La storia di Franco IEZZI
Siamo soddisfatti di essere riusciti a dare seguito ad un progetto editoriale legato alla memoria. L’intento è stato quello di una narrazione “genuina”, grazie al racconto/intervista di alcuni personaggi. Essi sono stati protagonisti con azioni importanti sul proprio territorio contribuendo alla sua crescita delle proprie radici.
Sono state molte le chiacchierate informali che abbiamo fatto con Franco Iezzi, protagonista di questa intervista, molto prima di cominciare ed anzi, prima ancora di capire che forma avrebbe preso questo materiale. Il risultato è stato soddisfacente per noi che abbiamo ascoltato una storia intensa e ricca di avvenimenti. Di giorno in giorno ci siamo accorti di come il passato riemergeva dai profondi meandri della memoria del protagonista fino a riprender forma nuovamente nella realtà. Il tragitto del narratore, intercettando una linea sempre più nitida agli occhi dell’intervistatore e dei lettori, attraversa luoghi remoti, epoche trascorse, progetti orgogliosamente realizzati e delusioni ardenti per i mancati risultati, senza mai demoralizzarsi, ritrovando amici e personaggi impossibili da dimenticare nel tempo. Un viaggio andata e ritorno dal passato al presente, fino ad immaginare un futuro che sarà, con i progetti che Iezzi intende ancora realizzare.
I primissimi anni li ho vissuti nel pieno dell’ultima guerra, non ho ricordi
nitidi ma ho potuto ricostruire alcuni episodi attraverso i racconti dei miei
genitori e, soprattutto, dei miei undici zii e zie. Ero il loro primo nipote
maschio e si può facilmente immaginare quante attenzioni mi dedicavano.
Non dimenticherò mai, fra questi, mio zio Gaetano, il mio preferito; dopo il bombardamento del’43 venne a piedi a Sulmona e, sempre a piedi, mi portò a cavalcioni a Casalincontrada.
Dopo qualche giorno dal mio arrivo l’abitazione dei miei nonni e dei miei zii fu occupata dai nazisti. Ero l’unico bambino in una casa grande e piena di gente, era quindi normale che alcuni soldati mi cercassero per giocare, prendermi in braccio o tenermi sulle ginocchia. Uno di essi in particolare accendeva la radio e cercava di insegnarmi con il dito come cadenzare la musica a mo’ di direttore d’orchestra.
Mi hanno raccontato che i miei zii approfittavano di questi momenti di distrazione per dare una mano ai gruppi della resistenza che operavano nelle campagne vicine.
Mi sono divertito spesso nel tempo a sfottere i miei amici “compagni”, rivendicando il fatto che io avevo fatto la Resistenza e loro no.
Una piccola parte della mia folta cuginanza, ne siamo 45, oltre quelli di parte paterna.
La casa
dei miei nonni, che ospitava i loro undici figli, naturalmente era molto grande,
così, dopo qualche tempo, i nazisti la requisirono completamente, sfrattandoci.
La mia
famiglia trovò ricovero in una frazione di Manoppello, Ripacorbaria, nella casa
natale di mio padre.
A guerra finita tornammo a Sulmona, con la povertà, le estreme difficoltà di una famiglia di quattro persone che vivevano in due stanze. …………..per me
Mio padre era un carabiniere e mia madre faceva piccoli lavori al servizio di famiglie benestanti di Sulmona, oltre a badare a me ed alle mie sorelle che nel frattempo, erano diventate due.
Dopo qualche anno, ci fu assegnata una casa popolare; due camere, una cucina e un bagno. Le condizioni, ovviamente, erano quelle del dopo guerra e un bambino di allora non aveva nulla rispetto a quanto si può osservare oggi. Avevo una giacca che è cresciuta insieme a me e poi mi è andata sempre più stretta.
Mia madre l’aveva rivoltata più volte per adattarla e farla sembrare meno vecchia.………bullismo. Ho avuto un paio di scarponcini di cuoio coi quali sono cresciuto erano rinforzati sotto la suola con dei chiodi da tappezziere a testa larga e tonda per limitarne il consumo. Io li utilizzavo anche come “pattini” per scivolare sul ghiaccio.
Il mio rapporto con la scuola già dall’inizio non fu, per così dire, d’amore: fino alla terza media ho espresso lo sforzo minimo indispensabile. Bene o male, comunque, riuscii a concludere il triennio e mi apprestai alle scuole superiori.
Fu allora che un episodio traumatico segnò radicalmente il mio modo di vivere la scuola, lo studio e anche la vita.
Premetto che durante la mia infanzia, per molti mesi mi avevano mandato nel paese dei miei nonni materni, sempre a Casalincontrada, dove eravamo vissuti come sfollati, perché mia madre era stata ricoverata per un lungo periodo presso un ospedale a Roma per essere curata da una malattia di cui non si riusciva a trovare la cura. Naturalmente fui inserito, a tutti gli effetti, nel loro ritmo di vita e nelle loro abitudini.
I miei zii lavoravano nel vasto piano terra della casa come ebanisti e falegnami, altri miei zii lavoravano in un fabbricato attiguo come carpentieri metallici e meccanici di precisione. Io fui “assegnato” al reparto falegnameria, addetto al recupero dei chiodi: il lavoro consisteva nello strofinare una grossa calamita su tutti i pavimenti del laboratorio che poi dovevo raddrizzare. Successivamente mi insegnarono a fare gli incastri a “coda di rondine” e dopo a lucidare i mobili con spirito e gomma lacca.
Il ritmo di vita era serrato: sveglia alle 5 e mezza, al lavoro alle 6, alle 7 colazione con pane e peperoni. Alle 9 scuola, poi pranzo e subito i compiti a casa. Alle 18 la cena, poi partitella a carte con mio nonno, un uomo buono ma burbero (doveva tenere a bada tutti quei figli) che mi rimproverava spesso perché io faticavo ad imparare le regole.
Dovremmo scrivere un libro a parte. Come spesso accade in questi casi però, a rimanere nella mente sono le cose meno significative. Forse alcune parole, gli sguardi, l’atteggiamento duro di chi si è spaccato la schiena tutta la vita per garantire un pasto ad una famiglia numerosa. Poi ti ritrovi a pensare a qualcosa di concreto, ad una sua frase, ad un suo gesto… e che cosa ti torna alla mente? Mia madre Concetta; dopo molti anni mi confessò che un giorno mio nonno la prese da parte e le disse con qualche imbarazzo: “Cuncè a me, me pare che lu citele te è nu poch fess” (traduzione: Concetta, a me sembra che il tuo bimbo sia un poco fesso).
Mio nonno aveva una intelligenza superiore, era un inventore, soprattutto di macchinari che poi venivano usati in laboratorio. Una volta costruì una macchina affettatrice che, a parte la lama, era tutta di legno; inventò un particolare tipo di ruote per i carri tirati dai buoi che rendevano molto più agevoli gli spostamenti nei periodi di pioggia lungo le strade di campagna caratterizzate da terreni molto argillosi. All’inizio della stagione calda organizzava le operazioni di trebbiatura del grano spostando le macchine nelle “aie” di ciascuna delle aziende agricole. A me aveva affidato il compito contabilizzare il grano che veniva lavorato; l’impegno consisteva nel segnare con un coltello (fare le ‘ndacche) su una canna per ogni bidone di grano che usciva della trebbiatrice
Per molti anni era stato sindaco del paese.
Se oggi dovessi comporre un quadro generale dell’impatto che questa persona ebbe su di me non potrei fare a meno di considerare l’esempio di una mentalità dedita all’impegno, ma anche ricca di ingegno, un’esperienza, dunque, quella con mio nonno, unita ovviamente anche alla mia indole, che mi indirizzò decisamente verso il settore tecnico.
Dopo le scuole medie chiesi ai miei genitori di farmi studiare presso un Istituto Tecnico Industriale. Purtroppo, questo genere di scuola a Sulmona non c’era, la più vicina si trovava a Chieti.
I miei, contrari al fatto che un quindicenne viaggiasse ogni giorno per andare a scuola (i tempi erano quelli di allora) optarono per una scuola vicina; così, per la gioia di mio padre, che non vedeva l’ora di vedere suo figlio ragioniere, mi iscrissero a ragioneria. Fu un autentico trauma!
Il primo anno, per una forma di sciocca rivalsa nei confronti dei miei genitori, per la scelta che avevano operato contro la mia volontà, lo affrontai senza alcun impegno. Le mie attitudini erano state ignorate e passai l’anno a fare altro: il mio passatempo preferito, durante le lezioni, era quello di scolpire con uno ago da materassaia e un temperino, sui pezzi di gesso che rubavo da un cassetto del bidello, le teste dei miei compagni e quelle dei professori, avendo come modello il monumento a Carlo Tresca posto all’inizio della Villa Comunale.
Inevitabilmente l’esito scolastico era prevedibile, fui rimandato in quattro materie. Gli insegnanti dissero ai miei genitori che, viste le molte lacune, sarebbe stato più opportuno ricominciare da capo.
Ripetere l’anno fu un evento che mi colpì molto, soprattutto quando realizzai che ero un “ripetente”, ma divenne poi uno stimolo a maturare, per affrontare gli impegni con serietà per non provare mai più quel sentimento di vergogna.
La lezione che avevo imparato diede sfogo ad altre mie capacità ed interessi. L’impegno vero che cominciavo a mettere nelle cose in quegli anni, illuminò la mia propensione all’organizzazione: mi occupavo di qualsiasi cosa, dalla gita scolastica al giornale della scuola e ai contatti con il preside. Stavo sperimentando la passione con la quale, successivamente, mi sarei dedicato alla mia comunità e al mio territorio.
Non proprio. A quel tempo la normativa non permetteva ai diplomati in ragioneria di poter accedere a tutte le facoltà. Il mio titolo di studio apriva le porte soltanto alla facoltà di economia e commercio, ritenuta più attinente alla formazione acquisita durante la scuola superiore. Un altro schiaffo alle mie attitudini e ai miei desideri: meccanica e falegnameria erano sempre più distanti per me che volevo costruire adoperando la manualità e l’ingegno; si apprestavano la contabilità, i numeri e le leggi.
Memore dei fallimenti passati decisi di affrontare il corso di laurea con il massimo impegno per potermi laureare in fretta e, finalmente, cominciare ad indirizzare la mia vita dove volevo.
Ora: rimaneva il problema di finanziare questa mia avventura accademica. La maggior parte dei miei amici studenti di ragioneria preferirono studiare da casa per poi dare solo gli esami universitari. Io preferii vivere a pieno l’esperienza di studio e formazione: poter andare a Roma, cambiare aria e vivere le nuove conoscenze, sarebbe stato senz’altro utile ad un provincialotto che non sapeva nulla, per approcciare il mondo che lo attendeva.
Ma c’era il problema dei costi.
Mia madre grazie anche all’aiuto dei fratelli, aveva acquistato un piccolissimo negozio che vendeva esclusivamente abiti per defunti che convertì in una merceria. Fu un’intuizione che rivoluzionò la nostra vita perché migliorò le condizioni economiche (lei diceva sempre: “chi negozia campa chi fatica crepa”).
Le maggiori possibilità economiche, dunque, mi permisero di proporre a mio padre di andare a studiare a Roma. Le disponibilità restavano comunque al limite. Mio padre riuscì a darmi il necessario con l’impegno da parte mia di concludere nei tempi previsti l’impresa universitaria. Oltre alle spese vive, pensione, libri, ecc., avevo anche qualche soldo extra (5.000 lire equivalenti a 2,5 euro) per me. Quindi partii…
Decisi subito di aumentare il mio budget facendo lavori saltuari: nei ristoranti, nei mercati generali e in alcune tipografie dove si lavorava duramente fino a notte inoltrata. Mi capitò, fra i tanti lavoretti, di fare la comparsa a Cinecittà. L’esperienza fu breve: il primo giorno finito di “girare”, mentre mi toglievo la divisa di centurione romano mi accorsi che mi avevano rubato tutto, vestiti e scarpe. Il responsabile del nostro gruppo non volle sentire ragioni e mi disse che entro dieci minuti dovevo lasciare i locali. Mi ritrovai seminudo in una situazione fra il comico e il drammatico. Più comica adesso, diciamo, e molto più drammatica allora.
Riuscii a fare una telefonata grazie ad una addetta alle pulizie che mi prestò i gettoni telefonici per contattare alcuni amici che mi portarono nuovi abiti, mentre io aspettavo in mutande nel gabbiotto del custode.
Forse lo presi come un segnale, fatto sta che interruppi la mia breve attività lavorativa e soprattutto la “ l’avventura cinematografica” e mi ricordai che ero lì per studiare.
La mia facoltà era in pieno centro a Piazza Fontanella Borghese ed io vivevo in un sottotetto in Via del Babbuino, 51, con due megere: quando si accorgevano che ero costretto, per il freddo, a mettere sotto le lenzuola l’asciugacapelli acceso, mi staccavano la corrente.
Non nascondo che, al di là dei disagi, vivevo con gioia e serena leggerezza la condizione di un ragazzo di provincia che abitava nel cuore di Roma, una città che in quegli anni, viveva l’entusiasmo e gli stimoli della rinascita.
Mi affacciavo alla finestra ed osservavo la vita intensa di via Margutta, la strada degli artisti. Un mio amico di Sulmona che frequentava il conservatorio di Santa Cecilia mi consigliò un ristorantino, “da Peppino” in via Vittoria, una traversa di via del Babbuino, dove i prezzi erano molto bassi: con 200 lire (un centesimo di euro) ti davano un piatto di spaghetti prelevati già cotti dal cassetto di un comò e un cucchiaio d’intruglio che doveva definirsi sugo.
Dopo pranzo si andava sulle scale di Trinità dei Monti a prendere il sole e a fumare una delle tre sigarette della giornata, questo passava il convento.
I giorni più frizzanti di quel periodo li passai in quella taverna che pure apparendo insignificante ospitava, la sera, i personaggi dello spettacolo, alcuni anche famosi. Venivano gli artisti in erba e giovani attori, mentre importanti produttori venivano per scoprire qualche soggetto particolare. Spesso passava Modugno, scribacchiava continuamente su di un taccuino. S’incontravano la domanda e l’offerta in materia di spettacolo.
Quando si abbassava la saracinesca iniziava un mondo di incontri, musica, balli e cominciava la festa fino a tarda notte.
Un mondo diverso, che oggi si è spostato molto da quella realtà. Da Peppino incontrai due ragazzi francesi, fratello e sorella. Lei, Mara, faceva l’attricetta di cinema, il fratello, Athos, omosessuale, era un artista di grandissima intelligenza: pittore scultore, disegnatore di abiti. Divenimmo subito amici anche perché, essendo cronicamente senza soldi, erano diventati miei ospiti fissi quando si consumavano i pacchi di vivande che mia madre mi mandava una volta a settimana.
Una sera sul tardi Athos venne a cercarmi alla pensione, disse che voleva parlarmi; uscimmo e andammo a Piazza del popolo. Ci sedemmo alla base dell’obelisco. Lui era molto imbarazzato e nervosamente mi fece una proposta che mi gelò letteralmente: mi chiese di diventare l’amante di Mara sua sorella.
Giustificò la richiesta dicendomi che Mara era di un genere frivolo e particolarmente ingenuo, molto spesso si metteva in situazioni che lui definì “pericolose” e l’idea che fossi io a stare con lei lo avrebbe fatto stare più tranquillo. Passai una notte insonne, del resto a diciannove anni e senza esperienza, ero solo un bamboccione venuto da una cittadina di provincia con la valigia con lo spago, e non concepivo nemmeno lontanamente faccende del genere.
La mia mente venne catapultata nel mondo reale lontano anni luce dal mio modo di pensare, nel caos della città moderna con le sue complicate contraddizioni.
Cominciò così la mia frequentazione con Mara, mentre contemporaneamente, la mia testa si allontanava repentinamente dall’impegno primario che mi aveva portato a Roma: lo studio.
Passavo tutto il mio tempo con i due amici e saltarono tutti i programmi della prima sessione.
Poi arrivò la goccia che fece traboccare il vaso. Una sera un mio amico marocchino, scultore, che ogni domenica mattina mi portava al Pincio e mi descriveva le varie tecniche usate nella realizzazione dei busti in pietra, mi invitò a quello che lui definì un “pesce party” nella “sua” villa in via Margutta.
Per non fare la parte del provincialotto ignorante, non chiesi spiegazioni ed accettai, esprimendo il mio compiacimento per il prestigioso alloggio che occupava. Lui senza scomporsi, mi precisò che tutti gli artisti in erba usavano utilizzare le ville della famosa “Strada degli Artisti”, per avere la possibilità di scrivere sul loro biglietto da visita che abitavano nella stessa strada di artisti affermati. Naturalmente il costo dell’affitto era esorbitante ma loro risolvevano il problema subaffittando , non camere, ma semplici spazi a una moltitudine di persone. Nel caso specifico la loro villa era occupata da 13 ospiti e lui insieme ad altri due stava in un piccolo corridoio che di notte diventava dormitorio.
Il party all’inizio fu particolarmente piacevole e mangiai del cibo eccellente a base di pesce molto ben cucinato. Avevamo appena cominciato a gozzovigliare che all’improvviso fece irruzione la polizia, ci caricò tutti su un furgone e ci portò in un commissariato dove fummo interrogati per tutta la notte. Quell’ottimo pesce era stato rubato ai Mercati Generali.
La vicenda mi ricondusse sulla retta via. Ripensai al patto fatto con mio padre e il rimorso fu opprimente. Si riaccese in me la fiamma della rivalsa e decisi, innanzitutto, di interrompere i miei rapporti di netto, tagliando ogni legame.
Ne soffrii molto, però mi concentrai assiduamente nello studio. Con sforzo enorme recuperai il tempo perso. Diedi cinque esami nella successiva sessione di febbraio, anche se la troppa fatica produsse risultati negativi: superai i cento chili e lo stress mi indebolì fortemente.
In aggiunta a tale affaticamento mentale e fisico, venni a sapere da Athos che la sorella era stata ricoverata per un grave motivo. Raggelai quando accennò alla tubercolosi. Tremai dalla paura anche perché, proprio in quel periodo, scoprii di avere alcune perdite di sangue dalla bocca. Il mondo mi precipitò addosso, fino a quando mi accorsi che le mie perdite di sangue derivavano da un tic, un vizio che avevo preso di succhiarmi le gengive, probabilmente un moto nervoso con cui sfogavo lo stress.
A parte questo episodio credo che una forza soprannaturale mi abbia salvato dal pericolo di affogare in una vita fatta di eccessi.
Tagliai di netto dalla mattina alla sera, rapporti, abitudini, vizi, amicizie. Cambiai pensione e mi trasferii nei pressi di Piazza Cavour.
Lo studio tornò ad essere l’obiettivo principale: il patto con mio padre non era stato accantonato.
Fu durante una lezione universitaria che un mio amico mi propose di aderire al Movimento Federalista Europeo, un’associazione che si occupava della nascente Comunità Economica Europea, primi tasselli di quello che sarebbe divenuta l’Unione Europea di oggi.
Conobbi l’avvocato Ivo Murgia, uomo di grandi qualità, appartenente ad una nobile famiglia sarda. Aveva fondato un centro studi denominato Giovane Europa.
Nella sua splendida casa avevo avuto la possibilità, insieme ad altri ragazzi, miei amici di Sulmona, di partecipare ad incontri altamente formativi utili a confrontare le nostre idee, nei quali cominciammo ad avvicinarci allo spirito di questo nuovo crescente movimento. L’argomento in quegli anni era molto caldo: il 25 marzo 1957 infatti, era stato firmato il Trattato di Roma, l’atto di nascita della grande famiglia europea della CEE.
Cominciammo a prendere contatti con le realtà della politica romana per organizzarci e partecipare a questa nuova epocale novità.
Si prefigurava una forte unione, essenziale per evitare ulteriori conflitti armati ed offrire agli europei un futuro di crescita esponenziale a livello mondiale. Un progetto che avrebbe cambiato in meglio la vita di molti: nella mia mente c’era sempre la mia terra.
Se penso alle guerre che ci sono oggi mi viene in mente una delle grandi delusioni di quel tempo, il fallimento della CED (Comunità Europea di Difesa) la cui origine, già nel 1950 aveva offerto la maniera di impostare le prime soluzioni per la costruzione di un esercito europeo o, quantomeno, per il coordinamento sulla produzione degli armamenti. In questo senso il Consiglio d’Europa votò a Strasburgo una mozione a favore, ma uno dei nodi, difficilissimo da districare, riguardò il riarmo della Germania, ed il parere negativo soprattutto della Francia.
Sulle le guerre odierne le nazioni europee dovrebbero riflettere molto e affrontare con decisione il progetto di un esercito comune o qualcosa di simile. L’esperienza di quel periodo in tutti i modi, tra incontri e riflessioni, mi fu veramente utile per poter ragionare su concetti di comunità e di unione.
Come prosegui il suo impegno nel Movimento Federalista Europeo?
Come spesso accade, le cose serie non possono che celare una venatura comica, ma in questo caso la mia audacia o, molto più probabilmente la mia incoscienza, mi spinsero oltre i limiti.
Nel corso di uno stage l’avvocato Murgia chiese se qualcuno di noi conoscesse il francese. Ancor prima della mia ragione, la follia della mente mi fece alzare il braccio. Fu così che ebbi la proposta di andare a Parigi per partecipare ad uno stage destinato alla formazione dei giovani per l’apprendimento della struttura giuridica della nascente Europa.
All’epoca avevo circa 21 anni, una conoscenza scolastica della lingua e pochissima esperienza.
Arrivai a Parigi e mi presentai nel luogo in cui questo stage aveva luogo, un bel posto nel mezzo di un parco vastissimo e molto ben curato. Al banco di accoglienza erano in fila rappresentanti di organizzazioni europeiste e non: iniziò il mio dramma. Quando fu il mio turno, qualcuno mi disse qualcosa e non capii assolutamente nulla, mi consegnarono una cartella e le chiavi della mia camera.
Più passava il tempo e più mi rendevo conto del passo più lungo della gamba che avevo effettuato. Condividevo la camera che mi era stata assegnata con un cittadino del Madagascar, un giovane malgascio che si chiamava “Rassolùnandrassanà”, che nella lingua malgascia significava “venuto dopo tanto dolore”, perché era nato dopo la morte di un fratello in circostanze drammatiche.
Il suo francese era correttissimo e fluente e questo mi aiutò a scongelarmi. Facemmo subito amicizia. Lui era abituato ai climi caldi, aveva abiti molto leggeri e la notte dormiva letteralmente abbracciato al termosifone. Andò a finire che la notte il mio nuovo amico dormiva imbottito dei miei vestiti che io poi usavo di giorno.
Nel pomeriggio era prevista una riunione plenaria: dramma, fase due. Quando entrai nella sala mi si raggelò il sangue; su di un tavolo vidi scritti dei cartellini con i nomi e gli stati di provenienza di tutti gli stagisti. Si comprenderà il mio terrore quando realizzai il fatto che io rappresentavo l’Italia.
Nel tavolo centrale presidiava il Presidente del Movimento Federalista Europeo e un ministro del governo francese.
Prendemmo posto e vidi che dall’altro lato del tavolo ciascuno dei partecipanti si alzava, diceva qualcosa e si risedeva; continuavo a non capire ma realizzai che si trattava di dire poche parole, quando fu il mio turno balbettai qualcosa a bassa voce, probabilmente senza senso e mi risedetti. Ma la disavventura non era ancora finita; alla fine della conferenza, conclusa dal ministro, gli organizzatori formarono quattro gruppi cui venne affidato il compito di approfondire i temi trattati dagli oratori e di relazionare in un ulteriore incontro che si sarebbe tenuto dopo la cena. Ovviamente nella riunione del gruppo a cui ero stato assegnato compresi forse dieci parole e non ne dissi nemmeno una.
Ero scioccato dall’accaduto, la notte meditai di abbandonare tutto inventando qualche scusa. Però la mattina seguente qualcosa, non so bene cosa, mi spinse a resistere. Scattò qualcosa nel mio cervello, che forse “comprese” l’esigenza di resistere. Per fortuna giorno dopo giorno feci bei progressi.
Si parlava e ci si confrontava circa 10 ore al giorno, tanto che in brevissimo tempo riuscii a partecipare ai gruppi di lavoro dignitosamente. Fu davvero una “full immersion “ che si trasmise in un apprendimento più rapido della lingua straniera.
Mi ero immerso talmente a fondo e mi ero impegnato così tanto che nel viaggio di ritorno, sul treno, a Torino, al controllore italiano che mi chiedeva il biglietto che non riuscivo a trovare, spiegavo le mie ragioni in francese!
L’esperienza e la relativa padronanza della lingua mi permisero di partecipare ad altri importanti stages sui temi della comunità europea a Marly-le-Roi, a Rouen e Francoforte. Ma soprattutto, la conoscenza di questa lingua risultò essere essenziale, quando la Regione Abruzzo mi affidò l’incarico di consulente per i rapporti con la Comunità Europea.
Il periodo era quello in cui l’onorevole Lorenzo Natali ne presiedeva la vicepresidenza e la frequentazione di Bruxelles e Strasburgo aprì le mie strade ad un nuovo mondo di conoscenze e relazioni umane sulle quali ho potuto contare negli anni successivi.
Una esperienza speciale, Papa Paolo VI concesse un’udienza privata a noi del Movimento Federalista Europeo, con l’avvocato Ivo Murgia, segretario generale del centro di formazione Giovane Europa e all’allora presidente della Corte costituzionale professor Ambrosini. Ebbi l’occasione perfino di scambiare qualche battuta con il Papa che mi chiese notizie sui corsi che avevo seguito.
In quella occasione il Pontefice ribadì un pensiero che a Lui era molto caro: “La politica è il più alto livello di carità cristiana”.
Straordinariamente vero, verissimo, ma quanto è difficile e complicato soprattutto nei tempi che corrono.
Fu, comunque, un bel momento.
La mia esperienza romana, intanto, si era conclusa con il conseguimento della laurea in economia e commercio.
Tornai a Sulmona e iniziai a produrre delle pubblicazioni su alcuni aspetti demografici del centro Abruzzo; mi dedicai anche a raccogliere una serie di dati statistici che mi consentirono, successivamente, di realizzare studi relativi allo sviluppo dell’area peligna. Uno studio particolare lo dedicai al possibile avvio di un processo di sviluppo industriale della Valle Peligna.
Il governo in quell’epoca aveva fatto una scelta di eccezionale importanza per il Sud che prevedeva di arginare il trasferimento dei lavoratori al nord, promuovendo la localizzazione nel Mezzogiorno di nuove unità produttive attraverso una serie di incentivi.
Io, intanto, avevo inoltrato domanda per l’insegnamento di matematica ed osservazioni scientifiche e cominciai a lavorare prima a Raiano, successivamente a Castelvecchio ed infine a Pratola Peligna. Un’esperienza piacevole per un giovane insegnante: avevo instaurato coi ragazzi (che erano delle scuole medie) un rapporto molto confidenziale riuscendo a svolgere le attività didattiche agevolmente. I ragazzi seguivano le lezioni con interesse.
Nel corso dei miei studi avevo avuto modo di conoscere e frequentare il Prof. Pifferi anche dopo la laurea, avevo tra l’altro appurato essere originario di Pratola Peligna. Mi stimolò molto a studiare una ipotesi di sviluppo della nostra area. Fu una circostanza coincidente con la scelta del Governo di cui ho già parlato.
L’allora Sindaco, Paolo Di Bartolomeo, insieme all’On. Natalino Di Giannantonio puntarono fortemente su questa opportunità e mi incaricarono di predisporre uno studio per ottenere il riconoscimento del Nucleo Industriale di Sulmona; fatto che avvenne nel gennaio del 1970. Il primo di agosto dello stesso anno ne assunsi la direzione con uno stipendio pari a quello di un impiegato comune.
Il compito che mi era stato affidato era enorme: avevo 29 anni ed una esperienza di vita piuttosto limitata. Tutto quello che era stato messo a disposizione era un piccolo appartamento di tre stanze completamente vuoto e un telefono poggiato a terra, nulla di più. Si cominciava da zero. L’impresa era notevole e gli stimoli importanti: mi sentivo utile, alla guida di un buon veicolo.
Dopo i primi mesi dedicati alla definizione di pratiche ordinarie furono assunte tre persone: un geometra, una contabile/segretaria ed un commesso. L’area di nostra competenza si estendeva lungo la ex ss.17 fino al confine con Pratola Peligna, occupata da attività agricole composte di piccole e piccolissime particelle.
In pochi mesi riuscimmo a redigere e far approvare il Piano Territoriale di Coordinamento e, subito dopo, a progettare tutte le infrastrutture necessarie per il funzionamento delle aziende.
Negli anni successivi riuscimmo ad ottenere dalla Cassa per il Mezzogiorno un finanziamento di oltre cinque miliardi di lire che, con gradualità ci consenti di realizzare un acquedotto industriale prelevando l’acqua necessaria dopo la sorgente in territorio del fiume Gizio in territorio di Pettorano; un depuratore al servizio della zona industriale e della città, la variante esterna a quattro corsie, la rete di distribuzione dell’acqua potabile, la rete fognante nera e la rete delle fognature bianche piovane. Inserimmo una capillare rete elettrica telefonica e, soprattutto, una rete di distribuzione del gas, senza ovviamente trascurare la definizione dei piani di lottizzazione, in modo da soddisfare sia le grandi che le piccole imprese artigianali. Progettammo e realizzammo anche un impianto per il trattamento dei rifiuti (oggi Cogesa).
Un elemento fondamentale per la riuscita della politica di attrazione fu la capillare organizzazione di una serie di contatti con le associazioni degli industriali del nord Italia e dell’Europa. Fu molto utile una mia permanenza in Irlanda, il cui governo, aveva preceduto il nostro, organizzando molto capillarmente il modo per attrarre nuove aziende.
Noleggiammo un aereo e portammo a Sulmona molti imprenditori cui facemmo toccare con mano tutte le caratteristiche del nostro agglomerato industriale illustrando le condizioni di favore che lo Stato assicurava loro.
Trascorsi alcune settimane in Irlanda dove il locale governo ci aveva preceduto nell’adottare politiche di marketing per l’acquisizione di nuovi investimenti. Feci tesoro della loro esperienza, a cui si univano alcune nostre peculiarità che risultarono essere un buon elemento di attrazione per nuovi investimenti.
La scelta del governo dell’epoca di delocalizzare le aziende dal nord al sud trovò una discreta accoglienza dell’imprenditoria settentrionale anche perché lo Stato, forniva un supporto economico finanziario molto generoso. Il primo gruppo industriale che raccolse l’indirizzo del governo fu la Fiat.
Nel 1968 Natalino Di Giannantonio, deputato della zona, mi propose di andare nella sede della Democrazia Cristiana a Roma per incontrare il segretario politico dell’epoca, onorevole Mariano Rumor; lo scopo era di sensibilizzarlo per far uscire la città da una condizione di eccessiva depressione economica e sociale. Pur sapendo che la mia persona aveva solo il compito di arricchire la delegazione con un giovane, accettati con molto piacere l’invito e ci recammo a Roma insieme al sindaco di Sulmona di allora, Paolo Di Bartolomeo, al professor Giuseppe Bolino e il Segretario Vagnozzi.
Nel corso dell’incontro illustrammo al segretario la difficile condizione della nostra area. L’emigrazione sempre più incalzante impoveriva le nostre città e la mancanza di prospettive stava mettendo in pericolo il futuro di un intero territorio. Chiedemmo di individuare delle iniziative che potessero assicurare uno sviluppo che arginasse il decadimento; gli rappresentammo tutte le potenzialità del nostro territorio e le criticità che ostacolavano i nostri progetti.
Il segretario Rumor ci ascoltò con attenzione ma ci disse che la situazione espostagli non era differente da quella di molte altre aree che erano interessate dallo stesso genere di decadenza e, che, tutte scontavano il naturale declino che segue una fase di benessere. Poi fece riferimento ad una serie di casi di aree che stavano conoscendo momenti di crisi profonda. L’incontro proseguì ancora per qualche minuto parlando in generale su temi vari, ma con mia grande delusione, non riuscimmo ad ottenere nemmeno un piccolo impegno da parte sua.
Finito il colloquio Rumor ci accompagnò alla porta, ci salutò e rivolgendosi a me, dandomi un buffetto sulla guancia mi chiese sorridendo: “embé giovanotto, sei contento?”.
Inizialmente tacqui, poi però non seppi trattenermi e risposi: “Onorevole, non molto… vede, è come se una persona molto malata facesse ricorso, come ultima speranza, alla visita di un grande medico e questo gli dicesse, che non si può far nulla per il suo male e che, conseguentemente, di fatto, è destinato a morire…”, lui abbozzò un sorriso e uscimmo.
Scendendo le scale, fui fortemente rimproverato dall’onorevole Di Giannantonio e dal professor Bolino per aver usato toni inopportuni nei confronti del segretario nazionale del partito. Durante il viaggio di ritorno un silenzio di tomba ci accompagnò fino a casa.
Nessuno disse nemmeno una parola.
Mi faccia arrivare alla parte più interessante della vicenda. Nelle ore successive all’incontro, naturalmente, pensai a tutto quel che era successo, a quel che avevo detto e alle reazioni che ci sarebbero potute essere a mio sfavore… erano altri i modi di confrontarsi in un’epoca in cui al comando c’erano personaggi di incredibile levatura; soltanto l’idea di un qualunque approccio verbale avrebbe demoralizzato chiunque. Come le dicevo, la sera a casa riflettei molto sull’accaduto e mi convinsi di aver sbagliato, soprattutto per essere stato irrispettoso nei confronti di un importante personaggio. Almeno questa fu la diagnosi che feci a me stesso.
La sera stessa presi carta e penna e scrissi all’onorevole Rumor una lettera nella quale mi scusavo del mio atteggiamento, giustificando la mia reazione con l’esasperazione giovanile, la profonda insoddisfazione, la mancanza di un progetto per il futuro.
Grande e inaspettata fu la sorpresa, dopo qualche giorno, di ricevere una lettera di risposta dal segretario. Due pagine scritte di suo pugno nelle quali mi esprimeva tutta la sua comprensione e il dispiacere per la sensazione negativa che aveva lasciato in noi. La lettera si concludeva con una frase sottolineata che ho sempre tenuto in mente e che avrebbe assunto di lì a poco un significato molto importante: “Caro Iezzi, stai sicuro che qualcosa farò per la tua terra, non perché me lo avete chiesto, ma perché lo devo”.
Fu quello che sperai… ma anche lo stimolo giusto deve essere coltivato. Quando cominciò a diventare realtà, l’intenzione della Fiat S.p.a. di realizzare nuovi stabilimenti nel Mezzogiorno, sensibilizzai i parlamentari, i sindacati, i politici di tutti i partiti affinché Sulmona potesse essere candidata ad essere sede di nuovi investimenti della casa torinese.
Lo “slogan”, che riecheggiava ogni istante nella mia mente era la frase dell’onorevole Rumor: “caro Iezzi, stai sicuro che qualcosa farò…”. Divenne come un motorino interiore sempre acceso che mi riportava a lui, a quello sguardo, a quelle sue parole scritte. Cominciai a mandargli una lettera “espresso” ogni santo giorno e continuai per tre mesi consecutivi: al suo interno la copia della lettera che lui mi aveva mandato con sottolineata in rosso la frase famosa.
Passò del tempo, fino a quando nella tarda mattinata di un giorno agognato mi arrivò in ufficio una telefonata del senatore Caron, presidente del CIPE -Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica-. Mi comunicò la notizia che aspettavo con tanta impazienza ed apprensione: all’ordine del giorno della seduta del pomeriggio era prevista l’approvazione dell’Accordo di Programma tra il Governo e la Fiat. Al suo interno si prevedeva la costruzione a Sulmona di un nuovo stabilimento, con l’occupazione di circa 1.400 unità. L’on. Caron aggiunse che la sua telefonata era stata sollecitata dall’onorevole Rumor.
Quella notte non chiusi occhio per la felicità, sapevo benissimo che non erano state certamente le mie lettere a definire le scelte del CIPE ma le varie coincidenze che si erano incrociate mi procurarono una soddisfazione intensa.
Il giorno della firma della Convenzione tra il Nucleo Industriale e la Fiat, con il Ministro Natali
e il dott. Agnelli, mentre illustro le caratteristiche dell’Agglomerato Industriale
In effetti di notti insonni ne trascorsi molte. Dopo qualche settimana dalla notizia dell’insediamento Fiat a Sulmona il direttore generale dell’azienda mi convocò a Torino per organizzare i lavori per i mesi successivi.
Fui prelevato da una macchina e portato all’Aeroporto di Pescara. Da qui un loro aereo mi condusse a Torino. Dopo la solita notte agitata da mille pensieri fui nuovamente prelevato alle 8,00 di mattina e portato nei loro uffici. Mi condussero in una sala riunioni nella quale mi aspettavano una decina di persone.
Dopo le presentazioni di rito e l’indicazione delle rispettive funzioni ciascuno di loro cominciò a pormi domande sulle pratiche di propria competenza. Le prime tre ore furono dedicate a conoscere lo stato dei terreni, le stratigrafie, i costi, le procedure di acquisizione, i tempi per l’occupazione di urgenza etc., si parlò di infrastrutture, acquedotti, fognature bianche e nere, gas, energia elettrica, rete telefonica e telex, impianto di depurazione, impianto rifiuti, raccordo ferroviario, strade e variante a quattro corsie. In conclusione si discusse sulla disponibilità di mano d’opera, sul livello di specializzazione, del raggio di pendolarità, disponibilità di alloggi, capillarità della rete dei trasporti, livello di sindacalizzazione.
Infine, mi furono fatte una serie di domande sul contesto economico e sociale (scuole, ospedali, assistenza sociale, attrezzature sportive etc.).
È così. Domande, risposte e conversazioni furono talmente serrate che ad oggi, onestamente, non saprei davvero raccontare cosa dissi fra bugie e verità, la mia grande battaglia interiore, il mio disperato tentativo di dare risposte che non avevo e risolvere le numerose criticità che man mano emergevano.
Ne uscii con la testa che mi scoppiava ma con la certezza che quel giorno era iniziata la rinascita del nostro territorio.
Ripresero anche le preoccupazioni. C’era così tanto in gioco che, se ci ripenso, mi vengono i brividi. Nella mia mente il disegno era nitido ma quante difficoltà si prospettavano per la realizzazione di ogni elemento del progetto complessivo! In ballo c’era soltanto il futuro di tanti ma anche il mio, senza considerare il potenziale rientro dei nostri emigrati.
Il problema resta sempre lo stesso. La mancanza di fiducia, la scarsa capacità di intraprendere, l’atavica tendenza alla lamentela, aggravata dalla incapacità di avere una visione accompagnata da progetti concreti. Da noi ci si aspetta sempre che “qualcuno” faccia per noi, se questo “qualcuno” non fa, scatta il vittimismo per l’autoassoluzione.
Quando ero presidente della Comunità Montana Peligna diedi incarico alla prestigiosa Fondazione Censis e, per essa, al suo Presidente Giuseppe De Rita. di effettuare una ricerca che mettesse in luce le ragioni delle nostre debolezze e le potenzialità del nostro territorio, con proposte concrete di sviluppo.
Io interloquivo attivamente con il gruppo di lavoro ed esponevo le mie idee, il responsabile però, mi fece notare che sarebbe stato molto utile e doveroso che io coinvolgessi i rappresentanti delle istituzioni pubbliche e private della nostra area per avere spunti, idee, progetti e ipotesi di sviluppo da chi viveva sulla propria pelle la crisi che stavamo attraversando.
Mi sembrò giusto ed opportuno, mi diedi subito da fare organizzando incontri ai quali parteciparono molte persone.
Portavo sempre con me un mio collaboratore che aveva il compito di riassumere il contenuto dei vari interventi e le proposte che fossero emerse. Prima di portarle al tavolo del gruppo romano, mi resi conto, che tutti gli interventi si erano dilungati molto per rispondere al primo quesito (le ragioni dei nostri limiti) e poco o niente per dare un contributo sul da farsi.
La ricerca però produsse un pregevole lavoro, una base per confrontarsi, per scegliere le proposte operative in essa contenute e quindi per avere un nostro progetto di sviluppo.
La presentazione dello studio fu fatta al teatro comunale alla presenza di autorità locali regionali e nazionali nonché rappresentanti di associazioni di categoria; l’intervento del Presidente De Rita, di grande livello, affascinò tutti.
Lo studio aveva anche l’obiettivo di affrontare un confronto collettivo di tutte le realtà pubbliche e private.
Al contrario il lavoro fù completamente ignorato.
Ho chiesto, al firmatario della lettera che segue, l’autorizzazione a rendere pubblica la lettera che lui mi scrisse dopo qualche mese. Essa rappresenta uno spaccato della nostra mentalità, la fotografia di una amara realtà è la risposta alla sua domanda.
Le notti erano insonni ma il cervello e la volontà sanno superare anche i momenti di maggiore ansia.
Si, lo so. E spesso vengo posto sul banco degli imputati.
La questione mi sta davvero a cuore e ne parlo con molta difficoltà, ma voglio provarci, anche perché sull’argomento non è stata mai fatta una riflessione seria. Sono prevalse le critiche qualunquiste, usate strumentalmente per attaccare le persone , me in particolare, o ingaggiare lotte di partito.
Dicevo, all’inizio, che il Nucleo Industriale di Sulmona nacque per una scelta precisa del Governo dell’epoca di arginare il forte esodo di manodopera dal Sud al Nord. Per questo prese forma l’idea di concedere generosi incentivi all’imprenditoria settentrionale per realizzare nuove attività produttive nel Mezzogiorno.
Voglio sottolineare con forza, con molta forza, anzi con veemenza, che nessuno, la politica, il sindacato, gli imprenditori, l’intera collettività sulmonese comprese la sostanza dell’iniziativa del Governo.
L’avvento della Fiat e delle altre aziende, grandi e piccole (ben 98), portarono un improvviso benessere e tutti ne trassero benefici ma nessuno si pose il problema del “dopo”. Si ebbe quella che potremmo definire una piacevole “ubriacatura”. Erano tutti soddisfatti e convinti di essere usciti dal tunnel. Ma a tutti è sempre sfuggito che il progetto del Governo, era certamente quello di creare nell’immediato nuovo lavoro nel Sud ma in realtà l’obiettivo era più ambizioso: mettere in moto un meccanismo virtuoso di autodeterminazione.
L’obiettivo vero, di prospettiva, era quello di “insegnare” alla nostra gente come si fa impresa vedendo e lavorando per le aziende che man mano si insediavano.
Era già avvenuto con successo nel nord-est. In quella area del Paese, dove l’agricoltura non riusciva più a dare reddito sufficiente a tutti i suoi addetti, un lento processo di industrializzazione rappresentò un toccasana, all’inizio per le nuove occupazioni nel settore industriale, ma poi per la nascita di tante piccole aziende promosse dagli stessi operai che avevano cominciato a lavorare nelle grandi strutture; da esse avevano tratto stimoli ed esperienze tali da diventare nel tempo fornitori di elementi produttivi utili alle stesse aziende.
Basterebbe chiederlo ai proprietari delle uniche due aziende create da ex dipendenti.
Nel meridione, ieri come oggi, non esiste una vera cultura imprenditoriale in questo senso; nell’idea del Governo era contenuta la convinzione che le imprese del Nord, oltre a portare lavoro, avrebbero “insegnato” come si fa impresa e che dopo, il Mezzogiorno, avrebbe camminato con le sue gambe. Diceva Mao Zedong:“Dai un pesce ad un uomo e lo nutrirai per un giorno, insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita”.
Da noi il contadino strappato ai campi, una volta diventato operaio è rimasto tale, ha mantenuto il terreno che ha continuato a lavorare, si è costruito una casa, ha acquistato una macchina divenendo un figlio prediletto del consumismo globale che già negli anni Settanta era alle porte. La mancanza di una evoluzione imprenditoriale, figlia di quella capacità creativa che in luoghi diversi ha prodotto maggiore ricchezza e innovazione, ha ristagnato, laddove la mancanza di investimento non ha prodotto la base per un futuro solido per le attuali generazioni.
Tutto questo non vuole essere una critica negativa nell’ambito di un contesto sociale complesso del quale, non in questa sede, sarebbe molto utile analizzare i contorni. La cosa certa è che, il processo di sviluppo industriale, oggettivamente, non si è autoalimentato.
In definitiva, la nostra collettività ha avuto oltre venti anni di progresso con circa 3000 addetti che pompavano l’economia dell’area. Di questo risultato, unico ed eccezionale nella storia della città, troppo spesso, non solo si dimentica, ma si critica alla “sulmontina” maniera.
Le aziende industriali, come tutte le cose, nascono, crescono, maturano, invecchiano e muoiono e se non c’è ricambio il sistema le fagocita.
Esiste anche un altro aspetto molto sintomatico.
Con le nuove aziende che si insediavano nel Nucleo Industriale io facevo un patto non scritto: di avvalersi prioritariamente delle ditte locali per le forniture, i servizi etc.
Racconto due episodi, fra i tanti, che sintetizzano in generale quale è stato il modo di pensare e di fare.
Un imprenditore che stava costruendo il suo capannone aveva bisogno di alcuni quintali di chiodi, girò tutti i negozi di ferramenta della città ma non trovò la quantità richiesta. Si sfogava con me non perché non avesse trovato la merce, si rendeva ben conto della difficoltà di tenerne in magazzino quantità elevate, ma perché non riusciva a spiegarsi come nessuno degli interpellati gli avesse proposto di consegnarglieli al più presto, dopo essersi approvvigionato da un grossista.
In un’altra circostanza una importante azienda che produceva tubi in lega speciale mi informò che gli imballaggi dei loro prodotti venivano realizzati a Torino e che, ovviamente, sarebbe stato più opportuno produrli in loco.
Data la particolarità dell’imballaggio mi rivolsi alle aziende che vendevano prodotti per l’edilizia, dal momento che trattando legname, avevano spazi ampi di magazzino. Soltanto uno degli interpellati accettò di proporre un preventivo da illustrare al direttore dell’azienda.
Dato per 100 il costo dell’imballaggio prodotto a Torino, che il proprietario dell’azienda sulmonese conosceva, la proposta fu di 99. Quando gli fu fatto notare che la differenza era modesta visto il sostanzioso risparmio dovuto all’assenza del costo di trasporto (trasporto da considerarsi quasi eccezionale visto il volume del carico), il nostro rispose che, se pur di poco, l’azienda avrebbe comunque risparmiato: e quindi era giusto che la fornitura fosse aggiudicata a lui. Naturalmente non se ne fece niente
Di casi di questo genere potrei raccontarne molti, certamente sintomatici di come da noi non sia mai decollato l’indotto, inteso come connubio tra la nostra piccola economia e il processo di industrializzazione in atto.
Nei decenni successivi si verificarono due fenomeni che hanno inciso molto negativamente sul sistema economico abruzzese e del Mezzogiorno: la globalizzazione dell’economia mondiale alla quale non eravamo preparati e il venir meno dei contributi europei, in particolare quelli del cosiddetto “ Obiettivo 1”.
L’Europa sostenne che la nostra realtà era uscita dalla fase depressiva e che quindi i contributi dovevano essere destinati ad altri Stati che nel frattempo avevano aderito.
Tutto verissimo, ma a ben vedere, nella nostra valle, per quanto fin ora spiegato, non era di fatto reale: indubbiamente, l’insediamento di oltre novanta nuove attività aveva creato un evidente benessere, tutti gli indicatori lo testimoniavano e fin qui siamo d’accordo; ma per fare capire esattamente come era la situazione potrei risolvere con una metafora. Il “malato” era uscito dalla sala di rianimazione ma adesso aveva bisogno di una lunga convalescenza perché non era ancora pronto a camminare da solo.
Mi pare di capire, leggendo non troppo fra le righe di queste sue testimonianze operative, che lei non ha molta speranza in una futura capacità “produttiva” della sua collettività, anche viste le occasioni perdute in tempi più appetibil.
I fatti parlano da soli. La nostra comunità ha perso irrimediabilmente una occasione storica. Sulmona non ha mai avuto una possibilità di sviluppo come quella di cui abbiamo parlato.
Le cito un altro episodio significativo. Parliamo di oltre vent’anni orsono: stava avanzando l’era della fibra ottica e proposi alla Regione un progetto per la realizzazione nell’agglomerato industriale di una capillare rete di fibra. Con un espediente riuscii a fare in modo che il progetto prevedesse la posa della fibra anche nell’abitato di Sulmona.
Il progetto fu realizzato completamente e la città risultò la più cablata d’Italia dopo Bologna (il giornale locale “Zac”, con un articolo mi attaccò accusandomi di aver “scavato” una intera città, in riferimento alle lavorazioni necessarie per porre in arte l’opera). Gente che avrebbe accusato Mosè di aver disturbato i pesci durante la separazione delle acque!).
Orbene! quella fibra è rimasta inattiva per oltre tredici anni! E invece avrebbe dovuto essere un grosso elemento di sviluppo. Soltanto pochi anni fa alcuni giovani ne hanno compreso la straordinaria utilità e se ne sono avvalsi per servire l’utenza sulmonese.
Adesso voglio farle una domanda delicata, anche in considerazione non soltanto di una stampa ostile, ma visto il fatto che anche l’opinione pubblica, secondo una mia personale indagine, esprime molto spesso giudizi negativi riguardo le sue attività e sulla sua persona. A questo punto del racconto e, vista soprattutto, la motivazione ideologica che la spinge a creare nuove opportunità e progetti utili alla comunità da oltre mezzo secolo di impegni visibili e reali, non capisco tale atteggiamento: lei è al corrente di questi giudizi e se sì, come se li spiega?
Sono perfettamente al corrente di questi giudizi e non posso nascondere il fatto che mi pesino molto soprattutto perché hanno creato notevoli dissapori della mia famiglia.
Ho riflettuto spesso sulle ragioni che spingono molte persone della comunità (non tutte ma tante) ad un atteggiamento negativo a volte perfino sprezzante e ostile nei miei confronti, ma non sono riuscito a trovare una ragione.
Sono perfettamente al corrente di questi giudizi e non posso nascondere il fatto che mi pesino molto.
Ho riflettuto spesso sulle ragioni che spingono molte persone della comunità (non tutte ma tante) ad un atteggiamento negativo a volte perfino sprezzante e ostile nei miei confronti, ma non sono riuscito a trovare una ragione.
Non saprei spiegarlo, certo è che un fenomeno così evidente che non può bastare circoscriverlo nei contorni dell’invidia, deve esserci necessariamente qualcosa di più profondo.
Le racconto un fatto curioso, oltre che per spiegare come sono venuto a conoscenza di tali diffusi sentimenti, anche per volerci scherzare un poco sopra: visto che i miei amici mi dicevano continuamente, non senza una punta di sarcasmo, che non ce la facevano più a difendermi dai miei numerosi denigratori, decidemmo che ciascuno di loro, quando fosse capitata l’occasione, avrebbe approfondito con i miei detrattori la ragione specifica delle loro “critiche” (certe accuse erano davvero pesanti).
Dopo qualche tempo, cominciarono ad arrivare le risposte. Come si può facilmente immaginare erano tutte molto generiche.
Un altro genere di antipatia potrei ricondurlo al “passaparola”, ovvero ad un fatto riportato da qualcun altro e reso fieramente proprio dal nuovo inquisitore, utile per proseguire la diffusione del verbo. Credo comunque che in qualche misura giochi anche la mia figura, il viso, il portamento etc. Un’antipatia a pelle, diciamo.
Poi, fra i tanti, c’era il caso di episodi insignificanti o, per meglio dire, non compresi bene dalla poca lungimiranza del pubblico accusatore. Un commerciante ad esempio espresse in dialetto il seguente improperio: “je quille ne lo puozze vedè manche retrattate, pecchè quande se tratteve de vutà contro lu supermecate lui si astenò”.
Ci ridemmo sopra, naturalmente. Si potrebbe ipotizzare, se dovessimo proprio discutere della questione invidia, che, quando qualcuno riesce a realizzare qualcosa che altri non sono stati capaci di fare, questi altri sparlano. Del resto, è noto, ai più, che da anni si scrive sulle caratteristiche della sulmontinità, così come è noto che non vi è nessun sulmonese che non lamenti l’attitudine di tutti gli altri a mortificare le persone che assumono iniziative, per dirla con Cirilli: “che a da fà mò tu”. .
In definitiva però, l’interrogativo resta, credo che non ci sia una sola spiegazione convincente.
Riguardo una categoria in particolare, invece, credo di avere una risposta agli attacchi che mi vengono rivolti, e parlo di alcune persone che nella nostra comunità hanno una posizione, diciamo, non secondaria e che hanno in comune la caratteristica di non essere stati in grado di fare nulla per uscire dalla cinta daziaria della città Nei confronti di questi personaggi provo una grande pena e mi asterrò da ulteriori giudizi.
Se chiedessimo a tutte queste persone cosa hanno fatto per la loro comunità la risposta (sincera) sarebbe sempre zero.
Aveva ragione Indro Montanelli, quando diceva che l’italiano
medio ha la sindrome del Papavero Alto.
Un giorno disse:
“Quando qualcuno vede passare una macchina di lusso, il suo primo stimolo, non
è averne una anche lui, ma tagliarle le gomme.” Purtroppo, l’invidia è un sentimento
presente e molto diffuso ad ogni livello e ad ogni età. Ma da dove nasce? Da un
confronto percepito non alla pari, l’invidioso desidera avere quello che gli
altri hanno e che a suo giudizio non riuscirà mai ad ottenere. L’invidioso non
si mette in gioco, non comprende i sacrifici, gli sforzi che stanno dietro ad
un successo.
Non si tratta di vera e propria invidia ma di una
sofferenza.
La sindrome del “Papavero Alto” descrive l’odio generato verso le persone che
riescono ad emergere in un determinato ambito. Quest’odio non è propriamente
una forma di invidia, bensì è legato al fatto che il successo altrui mette in
evidenza i propri limiti.”
Si molti, uno di questi un professionista, un avvocato, credo che mi abbia in odio assoluto. Pensi che per molti anni, quasi ogni giorno mi ha dedicato uno scritto in cui, ovviamente, mi denigrava citando sempre, noiosamente gli stessi fatti rigorosamente falsi.
Ho provato ad invitarlo ad un confronto aperto e pubblico, con un moderatore a sua scelta. Ha rifiutato sdegnosamente. Quando lo incrocio, lui abbassa la testa.
Onestamente mi fa pena perché la vita non gli è stata amica.
Lasciamo perdere dovremmo scendere ai livelli bassi.
Vari anni fa organizzai a Sulmona un grosso evento “Sweet confetto” con l’obiettivo di consolidare il titolo di Sulmona capitale del confetto. La manifestazione ebbe un successo enorme con la presenza di oltre 50000 persone.
Il direttore di un giornale online, che non aveva partecipato alla conferenza stampa di presentazione, trovò il modo per intervistare il gestore dell’evento che mi raccontò che l’intervistatore aveva più volte insistito per sapere se io ero stato destinatario di una qualche forma di corruzione. Evito di fare il nome ma non è difficile individuarlo.
Ci pensi bene ce n’è uno solo
Dopo alcuni anni dall’incendio del Morrone, nella sala consiliare del Comune di Sulmona, fu organizzato un incontro per ricordare l’evento.
Tra i presenti prese la parola Teresa Nannarone che raccontò la vicenda enfatizzandola con un mare di banalità e bugie.
Ovviamente presi la parola e smontai una per una le litanie che lei ci aveva rifilato ma, all’improvviso Patrizio Iavarone, seduto nel tavolo della stampa, si alzò di scatto e venne verso di me gesticolando e rimproverandomi per l’asprezza del mio intervento.
Mbè è certo che io gli sto sulle scatole, io mi limito a rispondergli quando mi attacca e a rimarcare le sue ipocrite contraddizioni.
All’epoca dei fatti dell’Afganistan presi spunto da alcune dichiarazioni di Teresa Nannarone che si offriva volontaria per andare in quel Paese in soccorso delle donne afgane e in uno dei suoi post su Facebook espressi il mio il mio punto di vista facendo rilevare la ipocrisia di certi atteggiamenti che, sfruttando tragedie immani, miravano solo a mettere in rilievo la propria persona.
Apriti cielo, insulti e stupidate a non finire, ma niente che riguardasse il contenuto vero delle mie affermazioni ( si figuri che molti degli intervenuti si erano limitati a discettare se “Afganistan si scriveva con o senza l’ “h”).
Tra questi commentatori si infilò anche Patrizio Iavarone il quale, astenendosi anche lui dalla sostanza del mio intervento, disse che io non avevo titolo a parlare fino a quando non avessi rimosso “l’obbrobrio” che avevo realizzato di fronte al tribunale.
Si riferiva alla scultura in legno che era stata realizzata in piazza Capograssi per celebrare il bimillenario della morte del poeta Ovidio.
La sua uscita era completamente fuori luogo e tempo ma per lui era una ghiotta occasione per esercitare la sua voglia denigratrice contro di me.
In occasione di una nevicata in città uno scellerato dirigente del Comune decise di far abbattere tre grossi alberi di fronte al Tribunale.
Venne da me un ragazzo, Marco Di Iorio , che mi chiese se ero in grado fargli avere i trochi degli alberi abbattuti che avrebbe voluto utilizzare per fare sculture, dalle ricerche che feci risultò che erano stati depezzati e quindi inutilizzabili.
Quell’episodio mi diede però l’occasione di avviare con lui un rapporto di amicizia che mi permise di ammirare le opere che negli anni aveva realizzato.
Marco era un lavoratore indefesso in grando di svolgere molteplici attività lavorative che servivano al sostentamento della sua famiglia ma senza continuità per cui non aveva tempo per dare spazio la sua vocazione artistica.
Ci lasciammo con l’intento di fare qualcosa insieme a Sulmona.
Passò del tempo ed un giorno venne nuovamente a trovarmi.
Era affranto e mi raccontò che aveva trovato il modo per conciliare lavoro e arte nel Gran Sasso Resort dove lui stava realizzando una serie di opere. Il proprietario amava molto i suoi lavori e gli chiese di realizzare un museo all’interno del Resort. Marco accettò con entusiasmo, il museo prese forma perché lui lo riempì con tutte le opere che aveva realizzato e che aveva in magazzino.
Il 15 gennaio 2017 scese a Raiano per raggiungere la sua famiglia.
Il 18 gennaio una valanga distrusse Il Gran Sasso Resort a Rigopiano, 29 morti e tutti i suoi sogni e le sue opere vanificate.
Parlammo a lungo e cercammo di individuare qualcosa che gli desse la forza di ripartire.
Dopo qualche giorno gli dissi che un mio amico giornalista della Rai mi aveva chiesto se potevo chiedere a Marco di partecipare ad una sua trasmissione sui fatti di Rigopiano , gliene parlai e lui chiese il mio parere. Gli dissi che sicuramente lo avrebbero pagato e che comunque poteva essere una occasione per farsi conoscere e forse qualcuno avrebbe potuto offrirgli un lavoro.
Mi disse che ci avrebbe pensato su.
Il giorno seguente di buon’ora mi telefonò per incontrarci. Mi disse che non accettava di andare alla trasmissione in tv perché avrebbe potuto significare che lui approfittava delle disgrazie altrui.
Dopo qualche tempo mi propose di fare qualcosa per celebrare il bimillenario della morte di Ovidio. Preparò vari bozzetti e cominciammo a sentire l’opinione di amanti dell’arte, critici accreditati e studiosi di Ovidio, fin quando la scelta cadde sul bozzetto che raffigurava l’opera come essa è posata in Piazza Capograssi.
Riuscii a trovare le risorse per la realizzazione dell’opera, ottenemmo i relativi permessi e cominciammo a lavorare ( uso la prima persona plurale perché per tutto il tempo ho affiancato Marco dando un contributo, per quel che potevo).
Ora l’opera può e meno piacere ma resta il fatto che è l’unica cosa che nella città di Ovidio celebra il bimillenario della sua morte.
Mi chiedo che titolo e che diritto abbia Patrizio Iavarone per definire quell’opera un “obbrobrio” e tutti gli altri che l’hanno disprezzata.
Recentemente sono iniziati i lavori di manutenzione straordinaria per fermare l’azione di usura del tempo.
Si altri ma non molti ma gliene racconto un altro.
Su fb un tizio fa una sua valutazione negativa sull’opera e un noto avvocato sulmonese, un politico che per questa benedetta città non ha mai fatto niente di niente posta a sua volta un commento negativo ed aggiunge “pensate a me che ogni giorno, quando vado in tribunale, mi tocca vederlo”.
Sullo stesso post dei tizio di cui sopra, una signora di “alto rango” figlia di un diplomatico e di madre pratolana dice : “io ho deciso di vivere a Sulmona ma già della giostra cavalleresca non se ne può più, ora anche questa cosa inguardabile…figuratevi che il mio cane non vuole più andare a fare i suoi bisogni lì”.
Conobbi Maurizio Costanzo a Roma, in occasione di una tavola rotonda sul tema “Quale sviluppo per il Mezzogiorno d’Italia”. Nella pausa pranzo ci trovammo insieme e nel parlare del più e del meno e si scoprì che ero di Sulmona e che, da bambino, andavo a ripetizione da sua zia, che chiamavamo “la signorina Costanzo”. Lei abitava nel palazzo di fronte agli uffici della ASL (palazzo dei Comboniani) dove abitavo e che lui frequentava. Tanto bastò per entrare in confidenza e per accennargli di un mio progetto “Sulmona città dell’Amore”. Ci scambiammo il numero di telefono e ci promettemmo di incontrarci.
Fu lui a chiamarmi dopo pochi giorni per propormi un incontro, ci vedemmo nel suo ufficio a Roma alla presenza del suo più valido collaboratore l’avvocato Giorgio Assumma. Entrambi rimasero colpiti dal progetto che, a loro dire, partendo da Ovidio, dai confetti (simbolo di momenti di amore) e Celestino V, non aveva nulla da invidiare a tante realtà del nostro Bel Paese in cui l’arte e la cultura sono da esempio in tutto il mondo. Ma la Sulmona di Ovidio aveva qualcosa in più, qualcosa che avrebbe potuto rappresentare l’amore in tutte le sue forme e diventare un simbolo che avrebbe potuto essere un richiamo importantissimo per il turismo. Si poteva aprire un mondo.
Costanzo decise anche di fare un sopralluogo in città per verificare se gli spazi dedicati agli eventi e tutto il contesto cittadino fossero adeguati. La visita avvenne dopo alcune settimane e confermò che la città possedeva tutti i requisiti (malgrado carenze relative alla ricettività alberghiera) per far partire il progetto.
La sua visita si concluse con un pranzo alla “Tartana”, noto ristorante di pesce dell’epoca, durante il quale avevo previsto di approfondire alcuni temi. Dovetti rinunciare perché lui era troppo preso, mano nella mano, da Maria De Filippi, il loro legame era appena nato. Fui costretto, si immagini l’imbarazzo, ad allontanarmi con una scusa e decidemmo di rivederci a Roma per discutere gli aspetti pratici del progetto.
Nelle successive settimane Costanzo mise in moto un primo tentativo di comunicazione parlando del progetto in una trasmissione radiofonica della RAI denominata “Chiamate Roma 3131” e scrivendo un articolo nella sua rubrica nel settimanale “Gente”.
Nel successivo incontro romano mettemmo a punto tutta una serie di aspetti pratici, soprattutto relativamente ai costi degli eventi programmati, che risultarono molto alti. Chiesi di ridurli tagliando alcuni eventi ma Costanzo mi disse che progetti di quella portata era disposto a farli solo se avessero avuto una risonanza nazionale (mi citò niente meno che il festival di Sanremo).
Mi invitò a usare il suo nome e sentire le istituzioni pubbliche e private regionali per sondare la loro disponibilità a concorrere al finanziamento, per poi tirare le somme.
Cominciai la questua a Sulmona e dintorni, setacciai l’intera provincia ed infine la Regione. Portai a casa un risultato magro, la metà della meta del preventivato. Nell’ultimo incontro che ebbi con lui gli comunicai l’esito delle mie ricerche e rimase molto deluso e fortemente contrariato. Reagì chiedendomi di partecipare ad una puntata del “Maurizio Costanzo Show”, nel corso della quale avrei dovuto spiegare il progetto e denunciare la miopia delle istituzioni pubbliche e dell’imprenditoria regionale.
Avevo imparato un po’ a conoscere la parte spinosa del suo carattere e declinai l’invito anche per non compromettere la credibilità della mia città e della mia regione.
E così il progetto annegò nel mare dell’indifferenza!
Non lo so, ma nella mia vita sono tantissime le cose di cui mi sono interessato e che sono state la conseguenza diretta di una circostanza o di una coincidenza.
Nel 1988 per ragioni di lavoro ero negli Stati Uniti a Philadelphia (il console aveva organizzato un incontro con operatori economici interessati ad investire in Italia) approfittai per andare a New York ad incontrare alcune persone con cui avevo rapporti.
Uno di questi ebbe la cortesia di invitarmi ad un party che si teneva nel suo appartamento.
Misi giacca e cravatta ed essendo in forte anticipo, feci una lunga passeggiata; fermandomi in un bar per prendere un caffè mi capitò di macchiare abbondantemente la mia camicia bianca (in questo sport sono imbattibile, un mio amico mi diceva che io sono capace di macchiarmi anche con le noci).
Uscii alla ricerca di un negozio per acquistarne una nuova e mi infilai in un grosso centro commerciale che era proprio di fronte, comperai una nuova camicia e gettai quella macchiata in un bidone di rifiuti (lo avevo visto fare da Cary Grant in un film).
Mentre uscivo fui attratto dalla scritta “formaggi sardi”: mi avvicinai e vidi in mostra alcuni prodotti della Sardegna.
Nel corso del party, conobbi la moglie del mio amico alla quale raccontai l’episodio. Lei mi disse che conosceva bene quel centro commerciale il cui nome era Bloomingdale’s.
Mi disse che a NY era un luogo prestigioso per lo shopping e che da tutto il mondo i turisti si recavano li appositamente a New York per fare acquisti. Mi disse che il reparto food aveva cibi di tutto il mondo e faceva incassi strepitosi; per rendere l’idea dell’importanza di questo centro commerciale, mi disse che la metropolitana newyorkese aveva realizzato nel sottosuolo del centro commerciale una fermata ad hoc.
Per l’appunto. Fu proprio in quel momento che mi venne l’Idea di provare a verificare se la Bloomingdale’s potesse essere interessata a realizzare una promozione di prodotti abruzzesi.
Chiesi alla mia amica se aveva la possibilità indicarmi come contattare i piani alti di quel “mall”, mi disse che alcuni suoi amici, avevano, con loro dei rapporti di lavoro e avrebbe potuto verificare se potevano combinare un incontro. La mattina successiva mi telefonò per dirmi che il presidente della società poteva ricevermi nel corso della stessa mattinata.
Incontrai il presidente e gli illustrai la mia idea. Dopo avermi ascoltato, chiese scusa, si alzò e fece una telefonata. Quando tornò mi disse che aveva chiamato suo figlio. Questi era studente a Firenze e il presidente, evidentemente interessato alla proposta , gli aveva chiesto notizie sulla regione Abruzzo che non conosceva. Le referenze furono positive e da quel momento l’evento prese il volo.
Il motore lo accendi tu con la voglia di fare. Dentro si scatenano un turbine di immagini ed emozioni… un’energia che unita alla forza di volontà, comincia a smuovere la creatività.
Nessun trucco, ognuno ha una sua peculiarità, ma certo non basta. Il talento senza una consapevolezza, una sensibilità particolare rischia di essere sprecato. Prima di tutto non devi sentirti più stupido degli altri e nemmeno più furbo; poi bisogna lavorare duramente sulle proprie inclinazioni. Questo potrebbe innescare i sacrifici più grandi, soprattutto in età giovanile, quando l’influenza degli altri, a partire dalla buona fede con cui i nostri genitori vogliono preparaci alla grande esperienza della vita, ci porta a fare delle scelte difficili.
Imparare a conoscere sé stessi passa anche attraverso un difficile percorso. Naturalmente è essenziale la guida dei genitori. Io ho avuto una madre che è stata la prima di undici figli e che quindi ha allevato tutti i suoi fratelli nei primi anni di vita, ha fatto anche il manovale edile. Mi ha sempre spronato citandomi esempi virtuosi e mi ha sempre incoraggiato a rischiare. A lei devo tutto.
Certamente, anzi grazie di avermelo ricordato. Poi parlerò anche di un altro episodio americano, riguardante un convegno organizzato da Al Gore.
Dove ero rimasto, vediamo. Si, la telefonata del presidente di Bloomingdale’s al figlio che fu sicuramente interessante, perché evidentemente, aveva ricevuto spunti importanti. Volle subito approfondire i termini per una proficua collaborazione e mi mise in contatto con uno dei suoi dirigenti per procedere all’organizzazione dell’evento.
Tornai in Italia e mi avventurai subito nella difficile ricerca delle risorse necessarie: circa 100.000 $ di cui i primi $40.000 servivano per una pagina promozionale sul New York Time.
Furono necessari alcuni mesi per mettere insieme la somma prevista, ma alla fine fui in grado di organizzare la visita dei buyers americani in Abruzzo per la ricerca dei migliori prodotti abruzzesi. Professionisti di alto livello che in poche settimane stipularono tutti i contratti per l’acquisto dei prodotti che sarebbero volati verso NY ed altre 64 città per 45 giorni.
Aprimmo subito una nostra sede operativa nella prestigiosa Quinta Strada dove, attraverso la sponsorizzazione di Alitalia, potemmo invitare alcune importanti delegazioni per promuovere l’evento, che consisteva nella esposizione e vendita di prodotti abruzzesi, alimentari e no.
Il taglio del nastro avvenne il 7 giugno 1989 a New York, preceduta da una conferenza stampa alla presenza dell’Ambasciatore Rinaldo Petrignani nel corso della quale presentammo una prestigiosa opera fotografica sull’Abruzzo. La cerimonia fu presenziata dal presidente del Consiglio Regionale della Regione Abruzzo e dal presidente di Bloomingdale’s; numerosa fu la partecipazione della stampa newyorkese di settore.
Per celebrare l’evento organizzammo insieme alla potente associazione NIAF (National Italian American Foundation) una cena con circa 480 ospiti che tenemmo al Waldorf-Astoria Hotel in Park Avenue. Anche il sindaco di New York, Rudolph Giuliani, ci onorò con la sua presenza: molti furono i complimenti e gli interessi rivolti al nostro Paese e alla nostra regione.
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Nel corso dei 45 giorni dell’evento abbiamo svolto una serie di manifestazioni. Particolare successo ebbe una gara di cucina riservata ai giornalisti sportivi del baseball, che consisteva nella preparazione di un piatto di pasta con prodotti della De Cecco. Mi inventai questa manifestazione perché coinvolgeva tutti i giornalisti americani che si occupavano di baseball, uno sport del quale, notoriamente, gli americani sono molto appassionati. La gara consisteva nella realizzazione di una ricetta con la pasta suddetta: il miglior piatto avrebbe vinto un trofeo, costituito da un mestolo di legno fatto da artigiani abruzzesi.
Lo straordinario successo dell’evento fu sancito dagli stessi giornalisti partecipanti che, naturalmente, divulgarono la cosa su tutti i loro giornali raggiungendo decine di milioni di americani. Questo fu un contributo non indifferente alla De Cecco poiché il prodotto, pur essendo già presente negli Stati Uniti, lo era in misura limitata, mentre successivamente a quella enorme pubblicità avvenne un incremento notevole delle vendite. Penso che i proprietari della De Cecco non siano nemmeno a conoscenza di questo fatto dal momento che i miei contatti li avevo con un loro rappresentate, un tedesco di cui non ricordo il nome.
La nostra sede a NY è rimase aperta per un anno e messa a disposizione degli operatori italiani per consentire attività, incontri e gestione dei rapporti tra operatori americani interessati a distribuire i prodotti esposti a Bloomingdale’s. Molte delle ditte presenti hanno poi avviato rapporti commerciali stabili negli USA.
L’iniziativa ebbe un successo enorme, tanto che nell’incontro conclusivo dell’evento con lo staff dirigenziale di Bloomingdale’s, mi si chiese di riproporlo negli anni seguenti coinvolgendo di volta in volta altre regioni italiane. Non solo accettai la proposta ma proposi anche il nome del futuro evento: “Ecco Italia”.
Tornai in Italia e fui sommerso da un grosso problema che mi rovinò la vita per 12 anni e quindi il progetto americano finì nel cassetto. Ma adesso non voglio parlarne.
Nell’agosto del 2005 ero a New York ed ebbi la possibilità di partecipare ad un incontro tenuto da Al Gore, 45º Vicepresidente degli Stati Uniti durante la presidenza Clinton dal 1993 al 2001. Fu insignito del Premio Nobel per la pace nel 2007 e del Premio Principe delle Asturie per la Cooperazione Internazionale per il suo impegno in difesa dell'ambiente.
Al Gore aveva avuto l’intuizione che grazie all’avvento degli smartphone ( parliamo di 20 anni fa) si potesse sviluppare quello che lui chiamava il “Citizen giornalism”, partendo dal presupposto che la diffusione dei nuovi telefoni cellulari avrebbe offerto la possibilità a chiunque di partecipare, di filmare video e di inviarlo ad un giornale online. Una forma di partecipazione attiva delle persone, grazie alla natura interattiva dei nuovi media e alla possibilità di collaborazione tra moltitudini, offerta da Internet.
Mi sembrò una giusta intuizione per cui tornando in Italia insieme ad alcuni amici decidemmo di occuparci di un giornale online che si ispirasse a questo principio, e nel febbraio del 2006 registrammo un giornale online che denominammo Rete5.tv.
Il nostro giornale ebbe successo e rappresentò una grande novità. Fu l’unica fonte di informazione via Internet dell’epoca e andammo avanti per molto tempo fino a quando, col passare degli anni, la mancanza di risorse ne ha ridotto la presenza nel settore.
Le racconterò una vicenda relativa alla Centrale Termoelettrica di Sulmona, una buona idea che non ha trovato attuazione nella realtà. Molto spesso mi sono trovato di fronte a serie difficoltà, posso soltanto dire che il non arrendersi è l'unico antidoto contro il fallimento, perché pure incontrando delle delusioni, alla fine utili insegnamenti. È la legge dei grandi numeri.
Nella nostra zona industriale fu realizzata una centrale termoelettrica turbogas a ciclo combinato; parte del calore di combustione del metano veniva recuperata per produrre vapore che spingeva una seconda turbina che a sua volta produceva ulteriore energia elettrica. Due centrali simili furono realizzate a Termoli e a Cassino, attigue agli stabilimenti Fiat come nel caso di Sulmona.
Dopo un decennio circa, la centrale mostrò dei limiti tecnologici per cui non era più conveniente la sua utilizzazione; fu fatta una gara per la sua rottamazione aggiudicata a una ditta specializzata. Incontrai il proprietario di questa azienda con l’idea di studiare eventuali possibilità utili a salvare in qualche modo l’impianto. Mi disse che non era attrezzato per questo genere di attività ma che avrebbe potuto aspettare prima di rottamare in attesa che si potesse trovare una soluzione.
In quel periodo ero stato invitato da alcuni amici iraniani a Teheran interessati ad avere rapporti con l’Italia. Nei nostri spostamenti passavamo spesso vicino ad impianti di estrazione di petrolio. Fui incuriosito dalle fiamme che fuoriuscivano da un sistema di condutture e domandai ragione di questo fatto. Mi dissero che durante la fase delle trivellazioni esce naturalmente del gas che non può essere immesso in atmosfera e che viene quindi bruciato con il sistema che avevo osservato.
La fiammella si accese anche dentro di me. Chiesi loro se erano interessati a utilizzare gli impianti di Sulmona, Termoli e Cassino per sfruttare il gas proveniente dalle trivellazioni per produrre energia elettrica di cui lo Stato iraniano aveva molto bisogno.
Facemmo molte ipotesi su questa possibilità facendo anche grandi passi verso una soluzione e firmammo anche un preaccordo.
Quando tutto era stato definito ci dovemmo fermare in quanto le pesanti sanzioni, nei confronti dell’Iran, non ci avrebbero consentito di stare tranquilli nelle varie fasi di attuazione del progetto.
Un progetto che resta in piedi perché è perfettamente eseguibile, in attesa che le condizioni politiche lo permettano.
L’incontro preparatorio con l‘Ambasciatore italiano a Teheran dottor Mauro Conciator
L'incontro con gli industriali iraniani
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Parliamo adesso del suo impegno in uno dei luoghi più caldi del pianeta, dal punto di vista bellico. Sono tante le curiosità che mi sono venute in mente e non le nascondo, vista la delicata situazione che si vive in quei luoghi, un suo coinvolgimento particolare e non facile da comprendere, fra relazioni di alto livello, compensi che deve avere avuto. Ho pensato, inevitabilmente, ad un suo rapporto con servizi segreti, società potenti e chi più ne ha più ne metta. Ma torneremo dopo su questi aspetti (vedo già uno sguardo severo nei miei confronti).
Cominciamo dal 1992 anno in cui fu sottoscritto ad Oslo l’accordo di pace tra Israele e la Palestina. Fu un evento di straordinaria importanza perché metteva pace, dopo anni e anni di lotta, tra i due popoli.
L’accordo, molto corposo disciplinava in dettaglio tutta una serie di impegni reciproci con il coinvolgimento delle potenze mondiali ed in particolare dell’ONU. Uno di questi impegni riguardava la razionalizzazione del processo di trasferimento quotidiano di varie decine di migliaia di lavoratori che ogni giorno si spostavano a Tel Aviv ed altre città israeliane per lavoro.
Il sistema era organizzato in modo da trasportare gli operai dal confine di Erez verso le varie destinazioni con centinaia di autobus, una operazione complessa, costosa e ad alto rischio di sicurezza.
Nell’accordo di Oslo era previsto di realizzare una zona franca industriale a confine tra i due Paesi.
Le Nazioni Unite si fecero carico di questo progetto e chiesero ai Paesi del Mediterraneo di collaborare per l’individuazione di manager del settore.
Da anni coltivano un’amicizia con il dott. Carlo Zaccaria (fratello del famoso vignettista Zac) che aveva origini e frequentazioni pratolane, oltre che essere capo della segreteria dell’on. Giulio Andreotti. Fu lui a chiedermi, stante l’esperienza che avevo maturato in materia di realizzazione di aree industriali, la disponibilità a gestire quel progetto, disponibilità che diedi molto volentieri.
Tutto cominciò con questo biglietto
Fu attrezzata una prima area industriale in attesa di verificarne la operatività. Proponemmo all’on. Andreotti di far finanziare un primo impianto per la produzione di succhi d’arancia.
L’impianto dopo un inizio promettente dovette interrompere la produzione per mancanza di pezzi di ricambio. Il materiale veniva bloccato alla frontiera israeliana (la ruggine tra i due popoli faticava a sciogliersi e i dispetti reciproci erano frequenti).
Nel 1994 sempre su iniziativa di Carlo Zaccaria e, quindi, di Andreotti fummo invitati ad un incontro con il Presidente Yasser Arafat a Tunisi
Fummo ricevuti dal Presidente nella sua tenda e ci espose un suo progetto pensato in previsione del grande rientro dei palestinesi sparsi in tutto il mondo a seguito degli accordi di Oslo
Il piano prevedeva la realizzazione di alloggi, strutture civili ed infrastrutture e ci propose di costituire una società mista tra il governo palestinese ed imprenditori internazionali interessati al progetto.
La prima parte del programma prevedeva la costruzione di 27.000 alloggi. Stante il numero elevato dei componenti le famiglie , di fatto si trattava, di realizzare una città grande come Pescara.
Seguirono una lunga serie di incontri che ci condussero nel 1995 a costituire formalmente a Gaza City una società mista denominata PDC – Palestine Development Company con un capitale detenuto per il 50% dalla PNA - Palestine National Autority presieduta da Arafat e il 50% da una società di costruttori internazionali.
La PDC ha rappresentato e rappresenta tuttora l’unica presenza italiana attiva nei territori palestinesi.
Con lui nacque subito un affiatamento ed una simpatia reciproca quasi confidenziale.
In occasione di un nostro incontro, mentre ero in attesa, il suo assistente personale mi offrì un caffè e mi chiese se avessi dormito bene; gli confidai che, il cambiamento di letto e di cuscino non era mai stato facile per me. Poco dopo l’assistente mi introdusse dal Presidente che sedeva in una poltrona, con un mitra poggiato alla sua destra, di spalle ad un muro diroccato (nelle settimane precedenti c’era stata una incursione israeliana nella sede del PNA); l’assistente, sorridendo, gli riferì la storia del cuscino; lui si mise a ridere perché il mio problema era un problema comune anche a lui, tanto che uno dei compiti dell’assistente era quello di portare nei suoi viaggi il suo cuscino personale.
Allora lui volle fare un significativo atto di amicizia togliendo il suo kalashnikov dal tavolo. Lui era un grande comunicatore ed un bravo attore.
Ma un vero e proprio legame si andò consolidando man mano che affrontavamo i problemi della ricostruzione.
Mi invitò a pranzo nella sua abitazione ed ebbi modo di conoscere sua moglie e la loro piccola figlia che conquistai di più quando portai loro in omaggio un cesto di confetti con il nome della piccola “Suha”.
La prima costruzione fu realizzata a Gaza City; era costituita da una piattaforma di 20000 mq e la prima di quattro torri denominata Al Awal
Purtroppo, nel 2014 in occasione dell’ennesimo conflitto il complesso Al Awal fu bombardato dall’esercito israeliano e 92 famiglie persero la loro casa.
Si una cosa a cui ancora oggi non riesco a trovare una pur piccola ragione plausibile.
In occasione dell’intervento armato da parte dell’esercito israeliano di cui sopra la Rai inviò un suo giornalista, Angelo Figorilli, per raccontare da vicino i fatti.
Figorilli è di Sulmona e ho con lui una vecchia conoscenza.
Lo chiamai mentre stava a Gaza e gli comunicai che avevano abbattuto il nostro complesso, mi sembrava che fosse una ghiotta notizia visto che si trattava di un intervento realizzato da italiani, l’unico in Palestina ( ovviamente la mia persona non contava più di tanto). Mi rispose che era impegnato e non poteva farlo perché aveva programmato il suo lavoro con un importante servizio.
Mi sembrò strano ma pensai che avesse notizie più importanti.
La sera vidi il servizio in tv e mi resi conto che oltre alle notizie del giorno l’attenzione era centrata sulla distruzione di un giardino zoologico e sul pericolo che correvano gli animali, dell’abbattimento della nostra torre nemmeno un accenno.
Bah.
Nel mese di ottobre dello stesso anno a Il Cairo si svolse la conferenza dei Paesi donatori per la ricostruzione di Gaza e in quella sede riuscimmo ad ottenere il finanziamento per la ricostruzione del complesso di Al Awal.
Dopo
una serie di peripezie e di intricate procedure burocratiche riuscimmo a
ricostruire l’intero complesso edilizio, fino a quando, nel mese di agosto del
2023 era iniziata la consegna degli appartamenti alle famiglie che lo avevano
perso.
Fu un risultato che mi rese particolarmente orgoglioso.
Purtroppo, dopo poche settimane la furia della nuova guerra lo ha nuovamente distrutto.
Ho chiesto ai miei riferimenti israeliani le ragioni di questo accanimento, mi hanno detto che il complesso Al Awal era l’unico che in tutta Gaza City che aveva un vastissimo il parcheggio sotterraneo e per questo veniva usato da Hamas per nascondere armamenti, oltre al fatto che la nostra torre, molto alta, era utilizzata per operazioni di avvistamento e per l’uso di droni.
In minima parte. Oltre ad essere protetti dai palestinesi, quando erano previste incursioni dell’esercito israeliano venivamo avvisati per tempo, e il Consolato italiano a Gerusalemme ci mandava un mezzo blindato.
Quando è cominciata l’avventura sapevamo di correre qualche rischio, ma in fin dei conti un po' di fatalismo non guasta.
Per la mia attività non ho mai percepito e non percepisco alcun compenso.
Fino al 2000 mi sono state rimborsate le spese, dopo non più.
In ogni caso, se dovessero crearsi le possibilità, tornerò di nuovo alle stesse condizioni. Mi rendo conto che è difficile da spiegare, ma il sacrificio è commisurato al piacere, alle soddisfazioni, alle emozioni, alla gratitudine delle persone.
Impareggiabile l’esperienza immensa offerta dal rapporto con i giovani, dalle amicizie e dai rapporti umani di cui ho goduto da quelle parti.
Io sono cristiano e cattolico, lavorare per migliorare le condizioni di vita di persone fortemente disagiate e farlo soprattutto nella terra dove è nato il cristianesimo è il massimo.
Nei primi anni del 2000 abbiamo realizzato molte altre opere, tra esse le principali:
Tre stazioni di pompaggio a Khan Yunis
Un impianto di dissalazione a Deir Al-Balah
Ministries Complex Infra Structure Works a Gaza
Un ospedale a Hebron – Princess Alia Hospital – (finanziamento ONU)
Un ospedale a Ramallah – Specialized SurgicalHospital (finanziamento PECDAR)
Una scuola a Bethlehem - Boys School - nel campo profughi di Dnel tenimento di Bethlehem (finanziamento ONU)
Quest’ultimo lavoro mi sta particolarmente a cuore per due ragioni: la prima è perché svolgendosi a Bethlehem avevo l’opportunità, nelle varie pause, di raggiungere la Chiesa della Natività, dove nella grotta sottostante, è nato Gesù. Tutto questo in un periodo in cui era precluso l’accesso a Bethlehem ai turisti. I momenti che passavo nella grotta in assoluta solitudine mi incutevano un senso di serenità e di beatitudine che non si può spiegare.
La seconda ragione è l’indescrivibile piacere che si prova quando puoi offrire la possibilità a ragazzi che vivono in condizioni di estrema indigenza di avere un punto di ritrovo e di incontro. Si tenga presente che il campo profughi di Dheisheh conta oltre 13.000 abitanti che vivono in condizioni di disagio assoluto.
Assolutamente no! niente di tutto questo: è tutto molto più semplice, sicuramente certe relazioni e i loro sviluppi nascono da circostanze che non si creano certamente standosene a casa. Alcune situazioni possono essere pericolose ma i rischi fanno parte del gioco; quello che conta è la motivazione con la quale si affrontano, naturalmente, nel rispetto assoluto delle leggi, scritte e non scritte, che vigono nel Paese di cui sei ospite.
Ma mi consenta una battuta sull’argomento che mi ha posto: credo che lei abbia visto troppi film sul tema.
Facendo patti chiari e rispettandoli. Ai servizi segreti il Mossad, e lo Shin Bet ad esempio, spiegammo il contenuto della nostra missione: innanzitutto che nessuno di noi era ideologicamente schierato per l’una o l’altra parte e chiarimmo che il nostro impegno in Palestina era motivato solo dal desiderio di contribuire a migliorare il loro livello di vita nel settore delle infrastrutture.
L’obiettivo nostro è sempre stato unito alla speranza ed alla convinzione che aumentare il benessere delle popolazioni era un elemento essenziale per il raggiungimento della pace duratura.
Inizialmente non fu facile anzi diciamo pure che non credettero a una parola di quanto avevamo detto. Le nostre motivazioni, evidentemente, non erano state molto convincenti ed i controlli furono esasperanti; poi, con il tempo divennero palesi le nostre buone intenzioni e i rapporti migliorarono, anche se i controlli rimasero sempre serrati, quando lasciavamo Israele, io e i miei colleghi venivamo sottoposti in aeroporto ad un intenso interrogatorio che durava ore oltre un’ora.
Poi con il tempo ci siamo scambiati reciprocamente anche piccoli favori che hanno reso a noi e a loro la vita più facile.
Su questo argomento potremmo scrivere un libro molto avvincente ma non posso e non voglio tradire i patti di cui sopra.
In realtà sono due: una è la scuola realizzata nel campo profughi di Dheisheh. Tutte le volte che sono andato nel campo i ragazzi mi hanno circondato di affetto e di doni.
L’altra è la realizzazione del monumento alla Pace denominato 2000&beyond posato in Manger Street a Bethlehem in occasione del Grande Giubileo del 2000
Il Cardinale Vincenzo Fagiolo, che avevo frequentato durante la sua lunga presenza a Chieti nella sua veste di Arcivescovo della Diocesi, essendo a conoscenza del mio impegno in Palestina e del mio hobby per la scultura, pensò a me quando Giovanni Paolo II gli affidò l’incarico di far realizzare un’opera che ricordasse a Bethlehem il Grande Giubileo del 2000.
Produssi un bozzetto che egli sottopose al Pontefice, il quale volle suggerirmi alcune modifiche che attenevano alla sua posizione in merito alle tre religioni monoteiste (da qui, i tre anelli della catena del 2000 che io nel bozzetto avevo posato in maniera diversa e lateralmente, e lui mi chiese di sollevarle in alto ad indicare che invece di cadere in basso, secondo la legge della gravità, si proiettavano verso il cielo perché sostenute dalla forza della Pace).
Foto del bozzetto finale approvato dal Papa
Il monumento fu realizzato dalla Walter Tosto di Chieti in acciaio inossidabile, montato su un grande masso di pietra estratto dal Monte Morrone.
Prima del trasferimento in Terra Santa il Papa volle benedirlo in udienza privata e quindi trasferito in Vaticano.
Nel giorno di Natale, fu posato a Manger Street a Bethlehem, alla presenza dell’on. D’Alema allora Presidente del Consiglio dei Ministri e dei vari rappresentanti degli Stati che avevano partecipato alla messa di mezzanotte.
Lei è un provocatore e si diverte a rigirare il coltello nella piaga.
Il monumento fu subito derubricato a “porta chiavi”.
Negli anni successivi, ogni primo dell’anno, giorno dedicato alla Pace, ho organizzato un collegamento tra le città di Sulmona e Bethlehem nel corso della quale i due sindaci accendevano in diretta e contemporaneamente una fiaccola alla base del monumento.
Con il tempo l’interesse della città è sempre diminuito così come l’invito ai vari sindaci che si sono succeduti a stringere rapporti solidi con la Municipalità di Bethlehem sono caduti nel vuoto
Video trasmissione Porta a Porta
Non mi fa piacere farlo ma ritengo che il parlarne possa essere utile ai cittadini di Sulmona in maniera che sappiano qualcosa di cui sono all’oscuro.
Lo racconto per la prima volta.
In città, a Sulmona, operava una banca popolare denominata Banca Agricola Industriale che nel 1985 aveva celebrato il primo centenario di attività. La banca operava prevalentemente in Sulmona con sportelli in alcuni comuni del suo hinterland.
Negli anni 70 la Banca d’Italia “spingeva” perché si avviassero processi di fusione soprattutto tra le piccole banche; l’obiettivo era di ottenere economie di scala ed evitare che i piccoli istituti finissero per morire di vecchiaia; così, la Banca Agricola cominciò a valutare ipotesi di accorpamenti con banche locali. Il primo approccio fu con la Banca Popolare di Castel di Sangro e con la Banca Popolare dell’Adriatico; si svolsero molti colloqui per tessere rapporti per il futuro. Il progetto non andò in porto perché la Banca Popolare dell’Adriatico, forte della sua maggiore dimensione pretendeva di fatto di fagocitare le altre due banche.
Allora la banca di Sulmona propose a quella di Castel di Sangro di iniziare con una fusione a due, ma quest’ultima espresse chiaramente il più secco rifiuto con una frase lapidaria: “zero + zero = zero”.
Qualche tempo dopo ci fu una avances della Banca dell’Etruria, la quale propose una annessione senza condizioni.
A quel punto il cda della Banca Agricola, constatato che non vi erano al momento le condizioni per una fusione con altri Istituti, decise di mettere in atto una serie di iniziative per fortificare la banca. Il duplice intento era di avere una posizione più forte in vista di eventuali nuove trattative e, oltretutto, di espandere la propria area di influenza. Naturalmente, questa scelta comportava l’abbandono almeno parziale della prudenza assoluta, privilegiando una maggiore apertura verso l’imprenditoria locale, la quale, per quanto fragile, rappresentava comunque un fondamento non trascurabile del nuovo benessere che stava interessando la città a seguito del processo di sviluppo industriale.
Quella scelta dette buoni frutti ma ci fu un incidente imprevisto ed imprevedibile. Uno dei nuovi clienti, gestore del primo supermercato in città, che si era ben accreditato conferendo quotidianamente, per alcuni anni, i suoi notevoli incassi alla banca, all’improvviso scomparve, lasciando un notevole scoperto che si era accumulato, anche per eccesso di tolleranza del personale di sala, in assenza del Presidente e del Direttore
La cosa sollevò un clamore enorme, tanto che la Banca d’Italia inviò degli ispettori per le verifiche del caso. Dalla relazione degli ispettori non emersero irregolarità di rilievo e tanto meno abusi, ma una sostanziale debolezza patrimoniale dell’istituto rispetto alle nuove dinamiche del contesto creditizio.
Ciononostante, inaspettatamente il Ministro del Tesoro dell’epoca, Ciampi, commissariò la banca. Una doccia gelata che in città diede la stura ad una serie di illazioni, accuse e polemiche politiche che avvelenarono il clima per moltissimo tempo.
Il commissario si mostrò non all’altezza del delicato compito che doveva assolvere e fu anche promotore di decisioni di dubbia correttezza che produssero una interpellanza parlamentare contro di lui firmata da ben 122 deputati che portò alla revoca da parte della Banca d’Italia del commissario stesso.
Prima della revoca egli propose un’azione di responsabilità nei confronti dell’intero cda di cui facevo parte, del collegio sindacale e del direttore, in totale 17 persone.
La magistratura, sulla scia del clamore cittadino, era l’epoca della vicenda di “ mani pulite”. promosse un procedimento giudiziario che portò in primo grado alla condanna di noi tutti imputati. Fu un autentico terremoto che investì personaggi importanti della città per oltre un decennio; alcuni di essi ci rimisero la vita.
Nel successivo processo d’appello la Corte impiegò poche decine di minuti per sgretolare il primo giudizio assolvendo tutti gli imputati. Nel frattempo, la Banca Agricola di Sulmona si era fusa con la Banca Popolare di Lanciano ( oggi Bper).
Restava da definire il contenzioso sollevato dall’azione di responsabilità con la nuova Banca, che fu oggetto di estenuanti trattative. Dopo 12 anni, la vicenda si concluse con un notevole esborso, a danno di ciascuno di noi con l’aggiunta, naturalmente, del pagamento delle pesanti parcelle degli avvocati.
Ne uscimmo tutti gravemente danneggiati oltre che finanziariamente, moralmente e psicologicamente. Per quanto mi riguarda, dovetti contrarre un mutuo che estinsi soltanto nel 2010.
Con la sofferenza e la rabbia che mi sono portato dietro per tutti gli anni successivi (non si è ancora sopita) nel 2022 decisi di approfittare di una nuova norma che consentiva di accedere senza troppe formalità agli atti dei vari ministeri .
Mi recai presso l’ex Ministero del Tesoro e dopo tre giorni riuscii a trovare il fascicolo contenente gli atti relativi alla decisione dell’allora Ministro Ciampi di commissariamento della Banca.
Per quanto ci si possa sforzare non si può immaginare quello che ho provato consultando le carte del fascicolo che praticamente conteneva la relazione degli ispettori della Banca d’Italia che, come ho già detto, non aveva rilevato nessun abuso o irregolarità e una lettera a firma di due dirigenti della sezione di Sulmona dell’allora Partito Comunista. Con essa, si inviavano al “compagno” Ciampi, alcune foto che ritraevano il deputato democristiano Romeo Ricciuti in compagnia del titolare del supermercato sopra citato, il quale, con la sua fuga aveva generato tutto il putiferio appena descritto.
Un lurido gesto tipico dei comunisti.
Rifletto spesso su questa scoperta e mi terrorizza l’idea di come possa essere facile rovinare la vita delle persone con orribili meschinerie. Pensi, che ancora oggi, quando mi si vuole attaccare si cita la vicenda della Banca Agricola. Lo ha fatto recentemente la nota “tizia” sui social e non solo e ovviamente “il germe”.
La interrompo e di mi perdoni, ma si capisce che lei ha una conoscenza molto relativa della mia gente. Lei parla di riconoscenza ma questa parola non appartiene al vocabolario degli abitanti di questa mia terra.
Io sempre andato avanti lasciando ai margini della mia vita i tanti denigratori seriali che mi attraversavano la strada. Invero, si tratta di persone di basso livello intellettivo, gente invidiosa, come abbiamo già detto, che pensa di valorizzare sé stessa disprezzando gli altri.
Sulmona ha nel suo DNA la tendenza innata a denigrare e demolire l’altrui operato.
Ma veniamo al Parco.
Nel gennaio del 2012 la senatrice Paola Pelino mi propose di occuparmi del Parco della Maiella: accettai con entusiasmo. Nel successivo mese di febbraio fui nominato Commissario dall’allora Ministro dell’Ambiente.
L’incarico era limitato a tre mesi e quindi non potei impegnarmi a fare programmi di lungo periodo. Alla fine dei tre mesi si susseguirono una serie di proroghe, prima di tre mesi in tre mesi e poi di mese in mese. Infine, nel settembre del 2012, su indicazione di 35i Comuni del Parco, con il parere favorevole del Presidente della Regione Abruzzo e con il parere favorevole a larga maggioranza delle commissioni ambiente di Camera e Senato, fui nominato Presidente dal nuovo Ministro dell’Ambiente.
Un incarico importante in una sede prestigiosa: l’Abbazia Celestiniana di Santo Spirito al Morrone.
Sentivo molto il peso di una responsabilità nuova rispetto alle mie trascorse esperienze e mi impegnai al massimo, anche forte del fatto che giocavo in casa. Ero assolutamente convinto che i tempi fossero maturi per attuare una forte campagna di promozione ambientale, turistica, economica.
Avevo molto tempo a disposizione e quindi ero presente nella sede praticamente ogni giorno.
Questo fatto già rappresentava una grande novità, visto che tutti i miei predecessori risiedevano in città lontane dalla sede del Parco e, di conseguenza, limitavano la loro presenza allo stretto necessario (credo derivi da questo il motivo del basso emolumento che viene corrisposto ai presidenti dei Parchi, poco più di 1000 euro al mese).
Il personale aveva le caratteristiche tipiche di un ente pubblico: alcune eccellenze, un numero medio di elementi motivati e competenti e poi un gruppetto meno impegnato.
Un problema del quale dovetti prendere atto fu che il rapporto tra la direzione dell’Ente, i rappresentanti dei 39 comuni e le relative popolazioni erano ostili e reciprocamente diffidenti, tra tensioni e contrasti sfociati in una serie di contenziosi giudiziari che avevano seriamente debilitato economicamente l’Ente.
Il Direttore non prese bene la mia nomina e ne ho potuto desumere facilmente la motivazione dal momento che la mia intenzione di cambiamento fu subito chiara. Una piccola rivoluzione, se vogliamo, che sarebbe certamente andata ad interrompere un sistema non certo fruttuoso per il Parco. Non per il Parco forse, ma assai comodo per il direttore, che si permetteva di venire una sola volta a settimana a Sulmona utilizzando un’auto del Parco che tratteneva a sua disposizione tutto il resto della settimana per il suo agio romano. Quando c’erano documenti da firmare il personale dell’Ente era costretto a recarsi a Roma per raccogliere la sua firma.
Era stato così felice della mia nomina che diede disposizioni al personale di comunicarmi, che nella sede, 2000 mq coperti, non era disponibile una stanza per me. Una stupida bambinata!
Nel corso del suo mandato, oltre dieci anni, era riuscito a creare le condizioni per
essere un dominus assoluto. Nessuno dei presidenti che mi avevano proceduto, nessun componente del Comitato Direttivo, nessun componente del Collegio Sindacale, si era mai permesso di intervenire.
Nemmeno il Ministero, organo vigilante, aveva mai fatto osservazioni: il direttore, in qualche modo, era riuscito ad addomesticare tutti. Faticai a convincermi che potessero succedere cose del genere.
Dopo pochi mesi, maturò la scadenza del suo contratto ed egli mi chiese di essere riconfermato, fra l’altro costringendomi, nell’eventualità che io avessi accettato, a compiere un atto illegittimo. Colsi la benvenuta opportunità di rifiutarmi, avviando subito le procedure concorsuali a termini di legge per la copertura del posto.
Ancora oggi l’Ente non ha un direttore stabile.
Prioritariamente mi dedicai a conoscere e a dialogare con loro creando con loro un rapporto di cordialità e di collaborazione. Salvo due o tre casi isolati, personaggi legati mani e piedi all’ex direttore, riuscii nell’intento.
Purtroppo, i problemi col famigerato direttore non si erano ancorano finiti. La sua vendetta non tardò ad arrivare e dovetti nuovamente affrontare una situazione dai caratteri grotteschi. Il galantuomo inviò alla Procura della Repubblica un assurdo esposto contro di me, relativo ad una vicenda che riguardava un presunto reato di abuso edilizio, in un comune del Parco.
Ci fu un processo che andò avanti per qualche anno fino a quando fui assolto con formula piena da ogni ipotesi di reato. Ironia della sorte, le spese legali a mio carico, pari al mio emolumento annuale non mi sono state rimborsate dall’attuale amministrazione dell’Ente; questo fatto fu motivato da una cervellotica interpretazione della legge. Un precedente pericoloso, dal momento che essere accusati nell’esercizio delle proprie funzioni, se pure ingiustamente con un esposto porta non soltanto ai gravi fastidi derivanti da un processo, ma nel momento dell’assoluzione anche al carico delle spese legali. Uno strumento potente, sempre a disposizione dei malintenzionati che vogliono infangare e demolire il responsabile di una struttura pubblica.
Difficilmente però nella mia vita mi sono demoralizzato: le cose cominciavano a migliorare ed andai avanti con entusiasmo. Riuscii a creare una splendida complicità con tutti gli addetti ai lavori, motivata anche dalla fine d’un clima di oppressione che ognuno di loro aveva sopportato nel tempo.
Una delle basi per le nuove fondamenta era il recupero del rapporto con le comunità locali, ripristinando un proficuo clima di concordia e collaborazione, rivolgendo particolare attenzione allo sviluppo turistico attraverso precise azioni di marketing a largo raggio.
Una volta presa dimestichezza con la parte tecnico-amministrativa e gestionale dell’apparato esistente mi sono dedicato alla progettualità, avvalendomi di dipendenti e collaboratori competenti, ai quali anche qui, colgo l’occasione per esprimere tutto il mio apprezzamento per il lavoro svolto quotidianamente veri professionisti innamorati del loro lavoro.
Vero, verissimo: ma se alle popolazioni poniamo solo vincoli le avremo sempre contro, al contrario è necessario promuovere azioni di sviluppo turistico che aumentino il benessere e creino occupazione.
Tra queste iniziative, mi piace sottolineare con orgoglio, il successo nazionale che ha avuto il Treno dei Parchi (banalmente chiamato la transiberiana d’Abruzzo), un viaggio che si svolge su vagoni d'epoca, solitamente treni storici con carrozze degli anni '20 o '30. Fattore che aggiunge fascino e nostalgia all'esperienza.
Accarezzavo questo sogno da molto tempo. In passato vi erano state alcune iniziative sporadiche, che però non avevano avuto seguito. La mia idea era di rendere continuativo l’uso per fini turistici di quella tratta storica.
Avevo avuto numerosi incontri con rappresentanti delle ferrovie per discutere un metodo utile per il raggiungimento dell’obiettivo, ma i risultati tardavano ad arrivare. Poi, grazie alla solita benedetta coincidenza si risolse tutto, quasi all’improvviso.
Ero a Roma per faccende d’ufficio e mi venne in mente di chiamare un alto dirigente di Rete Ferroviaria Italia per chiedergli supporto. Il primo piccolo miracolo fu che dopo una serie di passaggi tra le sue varie segreterie riuscii a parlarci: con il capello in mano, gli esposi il problema.
Mi richiamò dopo pochi minuti e mi diede il nome e i riferimenti della persona giusta da contattare, aggiunse di aspettare qualche giorno e di avere molta pazienza, perché la persona in questione era sempre molto impegnata. Decisi di chiamarlo subito e mi fermai con la macchina nei pressi di un giornalaio, rispose una segretaria che mi confermò la lunghezza dei tempi per poter conferire col dirigente. Diedi i miei riferimenti e chiusi la telefonata soddisfatto, tutto sommato del primo approccio e andai a comprare un giornale.
La fortuna era nell’aria: squillò il telefono e la segretaria sentita poco prima, mi comunicò che aveva informato il capo, al quale era appena saltato un appuntamento e aveva quindi tempo per incontrarmi pur. Ma la fortuna si univa adesso alla coincidenza: la segretaria mi disse di raggiungere il loro ufficio entro mezz’ora presso Piazza della Croce Rossa.
Chiesi d’istinto al giornalaio dove fosse quella piazza ed egli, sorridendo, mi disse che era proprio lì dove eravamo. Il mio angelo custode mi stava guidando!
Il colloquio fu particolarmente utile e concreto, definimmo tutto, il tipo di convenzione, i rispettivi ruoli, il tipo di gestione, l’inaugurazione e altri aspetti tecnici, compreso un primo sopralluogo sulla linea.
Seguite tutte le varie procedure, quando fu il giorno dell’inaugurazione, avevo fatto in modo che ci fosse la carrozza storica dedicata ai viaggi del Papa e del Presidente della Repubblica, carrozza splendida, all’interno della quale c’era , uno studio, una sala riunioni, un’area relax e una confortevole area servizi.
Convinsi il Presidente della Regione di tenere, lungo il viaggio, una riunione di Giunta Regionale per discutere dello sviluppo turistico delle aree interne dell’Abruzzo, in particolare delle zone montane.
L’evento ancora oggi rappresenta un forte attrattore di flussi turistici, forse unico. Molte le presenze così come le prenotazioni. Le cifre sono nell’ordine delle decine di migliaia. Il progetto ha avuto uno sviluppo inaspettato. La linea è la prima per importanza fra le quattro linee storiche del Paese.
L'obiettivo che ci eravamo prefissati oggi può considerarsi raggiunto: ogni anno operatori turistici locali organizzano autonomamente corse lungo la tratta ferroviaria rivitalizzata dal Parco a beneficio delle località toccate dal treno, divenendo uno stabile strumento di attrazione e fruizione turistica del Parco della Majella.
Mi passi l’enfasi, ma questa è una delle cose che mi inorgoglisce di più.
I singoli paesi attraversati dal treno diedero il meglio in fatto di accoglienza musicale e gastronomica e l’Istituto Alberghiero di Roccaraso servì un pranzo eccezionale. Il Parco curò con molta efficienza la comunicazione dell’evento che raggiunse i principali giornali e le emittenti televisive nazionali.
Il presidente del Parco Franco Iezzi e i direttore di Fondazione FS italiane inaugurano la Ferrovia dei Parchi
Questa è una grande nota dolente di questo racconto. Si sono limitati a godersi la circostanza e nient’altro. Quando affrontammo il problema della gestione del treno storico interessai la DMC per poterla proporre a loro (era questa la loro funzione principale), la risposta fu meno che tiepida. Anche l’Amministrazione Comunale, le Associazioni degli albergatori e quelle dei commercianti rimasero nel silenzio più assoluto.
Il Parco della Maiella aveva partecipato ad un bando della Fondazione Telecom, presentando un progetto che riguardava la vita di Celestino V e i luoghi che aveva frequentato. Il progetto si classificò al primo posto e fu generosamente finanziato dalla Fondazione.
Insieme decidemmo di esporre la mostra a Roma per offrirgli la pubblicità che meritava. Come location scegliemmo l’Auditorium in via della Conciliazione.
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Il successo di pubblico e di critica fu molto importante e cominciai a pensare alla possibilità di un evento in un luogo più prestigioso: i Musei Vaticani.
Ne parlai con il dott. Joaquin Navarro-Valls, che nella sua qualità di presidente della commissione giudicatrice della Fondazione Telecom, conosceva bene il contenuto della mostra e, soprattutto, aveva molti collegamenti con il Vaticano essendo stato il portavoce di Giovanni Paolo II.
Mi accreditò presso l’allora Governatore del Vaticano, Cardinal Giuseppe Bertello, il quale espresse tutto il suo favore alla proposta, accreditandomi a sua volta presso la direzione dei Musei Vaticani.
Il primo impatto con loro non fu dei migliori: la direzione eccepì subito che storicamente, nei Musei Vaticani, non era mai stato ospitato un evento che non provenisse direttamente dalla loro organizzazione e che, quindi, la proposta non poteva essere accettata. Pregai il responsabile di venire quantomeno a vedere l’esposizione che avevamo curato presso l’Auditorium Conciliazione, ed egli, resosi conto della qualità della mostra e colpito dalla cura con cui era stato effettuato l’allestimento, cambiò idea e decise di ospitarci.
Ogni cosa sembrava risolta, poi, come un fulmine a ciel sereno, sorse un problema che sembrava insormontabile: considerata la grandezza e vista la complessa tecnologia che la mostra conteneva, non vi era all’interno dei Musei Vaticani, uno spazio adatto in cui collocarla.
Passai molto tempo dentro i loro locali, in cerca di una soluzione per risolvere il problema, ma sembrava non esserci. Quella sera, mentre guadagnavo l’uscita dai Musei, passai davanti ad una grande vetrata che dava l’accesso ad uno spazio esterno piuttosto grande. Nuovamente illuminato da una possibilità, il giorno successivo mi precipitai a Pescara per incontrare il titolare di un’azienda che lavora nel campo degli allestimenti museali. Gli esposi il problema e lui mi assicurò che avrebbe trovato la soluzione.
Dopo due giorni, eravamo insieme nell’ufficio del Direttore dei Musei Vaticani per esporgli l’idea: si trattava, sostanzialmente, di realizzare una struttura prefabbricata da porre in opera in quegli spazi esterni che avevo osservato, adiacenti alla vetrata.
La soluzione fu accettata (mi risulta che la struttura sia ancora sul posto) e iniziammo subito l’allestimento. Finita l’operazione organizzammo una visita privata, alla quale parteciparono l’allora Ministro alla Cultura Franceschini, il dott. Gianni Letta, il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura Legnini e il Cardinale Bertelli.
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La mostra è stata aperta per molti mesi. Per avere un’idea del numero straordinario di persone che l’hanno potuta godere basta tener presente che la media giornaliera delle presenze ai Musei Vaticani è di circa 22.000 al giorno (secondi solo al Louvre).
Noi siamo stato li circa tre mesi.
Dopo l’evento romano abbiamo allestita la mostra su Celestino in nuovi locali restaurati nell’ Abbazia di Santo Spirito. Purtroppo, ad oggi, è chiusa al pubblico e non se ne conoscono le ragioni.
Le iniziative sono state tante ed è veramente difficile elencarle.
Mi limito ad indicare il prestigioso riconoscimento ricevuto dall’Unesco di Geoparco, il riconoscimento da parte di una struttura del ministero del turismo cinese.
Per il resto credo sia utile riprodurre la pubblicazione che è stata fatta alla fine del mio mandato.
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La Regione Abruzzo aveva lanciato una serie di iniziative che miravano ad internazionalizzare le piccole imprese; nei meandri della burocrazia e riuscii a far includere una misura che prevedeva l’obiettivo di far convergere a Sulmona le imprese italiane e non, che producevano confetti e dolciumi vari.
La gara fu aggiudicata ad un’impresa romana che si avvalse della struttura che annualmente organizza a Perugia il famoso “Eurochocolate”. Tutto il centro storico di Sulmona, le sue piazze, i suoi vicoli e gli androni di molti palazzi nobili furono invasi da banchi, sceneggiature e decorazioni con protagonista il confetto in tutte le sue forme ed espressioni. Il numero delle presenze fu calcolato in circa 50.000.
L’evento aveva comunque un obiettivo importante: consolidare e codificare l’immagine di “Sulmona capitale del confetto”. Ciò, naturalmente, comportava la ripetizione annuale dell’evento, ma l’anno successivo, i produttori di confetti, l’Amministrazione Comunale, la Camera di Commercio e la Regione non mostrarono interesse a continuare.
Il solito giornale locale intervistò il responsabile dell’organizzazione dell’evento per capire le ragioni della mancata ripetizione e durante l’intervista, mi raccontò l’intervistato, che il giornalista, più di una volta, aveva cercato di sapere se io avevo avuto interessenze personali ( roba di mazzette insomma ! )… alto giornalismo.
Le persone con le quali sono stato a contatto sono veramente tante, da ognuno ho tratto esperienze ed insegnamenti. Alcuni mi sono particolarmente cari perché mi hanno arricchito (ciascuno a modo suo) di insegnamenti e di umanità.
Dell’avv. Ivo Murgia ne abbiamo parlato.
Il prof. Igino Di Federico, docente di Fisica Tecnica Industriale a Firenze e poi a Ferrara, progettista dell’impianto di depurazione e degli impianti del Cogesa. Nelle sue frequenti permanenze a Sulmona passavamo intere giornate insieme, per ogni argomento che affrontavamo, fuori dal lavoro, lui dava un taglio originale e convincente alle questioni. Mi ha insegnato a ragionare a 360 gradi.
Con il dottor Giuseppe De Rita ho collaborato per oltre trent’anni. La sua Fondazione Censis mi inserì in un panel che veniva utilizzato per discutere di argomenti specifici, condividere intuizioni e scambiare idee. De Rita mi ha insegnato a catalogare gli argomenti, a razionalizzarli e soprattutto a mettermi in discussione sempre.
Nel 1996 mi fu offerta la possibilità di diventare socio all’Associazione Venice International Center for Marine Sciences of Technologies (UNESCO): Anche se della scienza e tecnologia marina ero totalmente digiuno fui attratto da un progetto di valorizzazione di un’isola veneziana.
Ebbi modo di conoscere il prof. Feliciano Benvenuti, presidente dell’Associazione, un cattedratico, giurista insigne, presidente della Fondazione Cini.
Ne rimasi subito affascinato e accettai con entusiasmo di collaborare ad un suo progetto che intendeva realizzare all’isola di Sacca Sessola a Venezia. L’isola, che si estende per circa 16 ettari, è dotata di un clima estremamente salubre; per questa ragione è stata sede di ospedali per la cura della tubercolosi e di ospedali pneumologici. Nel tempo l’isola aveva subito un notevole degrado e fu affidata dal Comune di Venezia al Centro.
L’idea di Benvenuti era quella di realizzare nell’isola, in collaborazione con la FAO, attività di ricerca, promozione ed organizzazione di corsi di formazione nei settori della pesca, dell’acquacoltura e della salvaguardia ambientale. Ci mettemmo al lavoro con entusiasmo ma purtroppo dopo un po' il prof. Benvenuti morì.
Oggi l’isola è occupata da un complesso edilizio di super lusso destinato ad albergo e centro benessere. Del prof. Benvenuti conservo ricordi incancellabili, lezioni di stile e di audacia.
Bassam Abu Sharif l’ho conosciuto ad Amman, dove lui vive. Mi colpì molto il suo aspetto: un viso martoriato, un occhio offeso, la mancanza di alcune falangi nelle mani. Evidentemente, quando lo incontrai la prima volta, non ero stato capace di nascondere l’espressione del mio viso e lui se ne accorse e volle raccontarmi le ragioni delle malformazioni del suo corpo. Negli anni passati era stato un terrorista molto attivo, aveva un collegamento personale e diretto con il famigerato Carlos, detto lo sciacallo, con il quale collaborò per il dirottamento dell’aereo dell’OPEC - Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio - il 21 dicembre del 1975. Era stato altresì portavoce di Yasser Arafat.
Per anni il servizio segreto israeliano lo aveva tenuto nel mirino per ucciderlo fin quanto, grazie ad un espediente, riuscirono ad organizzare un attentato contro di lui.
Il Mossad intercettò una sua richiesta di un libro su Che Guevara e il pacco che ricevette era stato confezionato con dell’esplosivo. Da qui le ferite. Il fatto accadde mentre lui era rifugiato in Libano. Mi raccontò anche che tentarono di attribuirgli la responsabilità delle bombe della stazione di Bologna e tanti altri episodi.
Non lasciai trasparire la paura di compromettermi e ci lasciammo.
Dopo alcuni mesi, lo incontrai a Bethlehem, era con comuni amici con i quali andammo a pranzo, lui volle sedersi accanto a me e mi disse che aveva avuto un lungo periodo di riflessione che lo aveva portato a ripensare a fondo al suo passato. Aveva appena finito di scrivere un libro dal titolo “Il mio miglior nemico” (tradotto in italiano dalle edizioni Sellerio) insieme a Uzi Mahnaimi un ufficiale del Mossad israeliano. Mi fece un breve riassunto del libro: due uomini, le cui storie personali incarnano la lotta tra arabi e israeliani, che erano praticanti delle tattiche feroci che caratterizzano il conflitto arabo israeliano, nel libro, rivelano la vita da lati opposti della faida più aspra del mondo e di come, alla fine, hanno trasformato un ciclo di violenza in una ricerca di pace. Non nascondo che mi commossi. La nostra amicizia si è rafforzata nel tempo e recentemente abbiamo parlato della possibilità di averlo a Sulmona insieme a Mahnaimi per ascoltare dalla loro voce la loro bella storia.
Bassam Abu Sharif
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Conobbi il Prof. Franco Modigliani- Premio Nobel per l’economia- Docente alla MIT di Boston in quanto partecipante ad uno stage tenuto da lui a Parma.
mi ha fornito una mole di insegnamenti di natura economica ma anche tanti motivi di riflessione su come operare nella vita. Spesso, in mensa, si intratteneva con noi stagisti distribuendo pillole di saggezza.
Assolutamente no, anzi. C’è un progetto particolare al quale credo moltissimo perché la sua realizzazione rilancerebbe la nostra regione : ci lavoro da molti anni.
Faccio una premessa importante. L’Abruzzo ha un unico grosso handicap: il basso numero di abitanti che comporta una grossa penalità di rappresentanza nelle Istituzioni nazionali, ovvero nei tavoli in cui si prendono le decisioni che contano.
Per farla semplice direi che ” l’Abruzzo non ha i numeri”
Questa deficienza incide in tutti i campi e soprattutto in quello economico. Il turismo, la cultura, i Parchi, danno un modesto apporto perché le presenze che si producono sono occasionali e, diciamolo pure, non sono fortemente attrattive tanto da far muovere flussi di persone consistenti. Insomma, l’Abruzzo non ha i numeri e in aggiunta vanta un dato molto negativo, si sta spopolando a un ritmo superiore rispetto al resto del Paese: -5,7% contro una media nazionale del -2,1%.
Una soluzione per fermare il degrado e rilanciare lo sviluppo ci può essere. Da oltre 21 anni mi occupo del collegamento (ferroviario) veloce tra Pescara e Roma.
Nel settembre del 2019 organizzai a Sulmona un convegno con la partecipazione del presidente della Regione Marsilio, il presidente della Fondazione Censis, De Rita, e l’amministratore delegato di RFI -Rete Ferroviaria Italia- ing. Gentile: Nel corso dell’incontro furono individuati i progetti, i finanziamenti e i tempi di realizzazione delle prime tratte. Il successo fu notevole perché nei mesi successivi furono firmati accordi con la Regione Lazio e con RFI e, soprattutto, fu redatto un progetto di prefattibilità.
Il successo mi riempì di una speranza che durò poco, perché rimasi molto deluso dalla sostanza del progetto. Molte parole, troppe ipotesi, poca concretezza e una sommaria valutazione dei costi, soprattutto mancava il progetto definitivo. Per realizzarlo è previsto un costo intorno a 200 Ml di euro, Rfi stima in sette anni il tempo necessario per produrlo, così come, sempre Rfi stima in 35/40 anni i tempi di realizzazione, il costo dell’opera non è stato ovviamente determinato e comunque superiore ai 6,4 Mld di euro previsti nel progetto di pre fattibilità.
Un secchio di acqua gelata mi cadde addosso quando realizzai che, dopo tutto questo complesso di adempimenti, il tempo di percorrenza della tratta Pescara-Roma si sarebbe ridotto di circa un’ora.
Una assurdità!
In definitiva tra 40/50 anni ci ritroveremmo una ferrovia del tutto obsoleta, soprattutto in considerazione della forte accelerazione che già oggi stiamo vivendo nelle tecnologie dei moderni mezzi di trasporto.
Dopo qualche mese, smaltita la delusione, cominciai ad informarmi su cosa si stava muovendo nel mondo riguardo l’alta velocità.
In particolare ebbi modo di approfondire la proposta di Elon Musk che aveva lanciato il progetto Hyperloop: un “treno” a lievitazione magnetica che corre dentro un tubo con una potenzialità di circa 1200 chilometri all’ora.
Scoprii che le “Ferrovie Nord” a Milano stavano facendo uno studio di fattibilità per collegare, con il sistema Hyperloop, Piazza Cadorna a Malpensa in 10 minuti. Ancora più stupefacente è stata la scoperta che un gruppo di lavoro sta realizzando, sempre con Hyperloop ,uno studio per collegare Milano a Roma in 31 minuti.
Con non poche difficoltà ho preso contatti con Bibop Gresta responsabile di Hyperloop Italia con il quale ho dialogato producendo un primo video esplicativo di cosa potrebbe rappresentare il collegamento Roma-Pescara con la tecnica Hyperloop.
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La sorpresa più grande, e la più bella, l’ho avuta quando ho scoperto che nel 2013 (un anno prima di Elon Musk), Piero Angela, in una delle sue trasmissioni di Quark aveva trattato il tema della grande velocità con il sistema della lievitazione magnetica e, udite udite, aveva indicato l’Università dell’Aquila come la più avanzata riguardo le ricerche sull’argomento.
Presi subito contatto con il prof. D’Ovidio, Professore Ordinario di “Ingegneria dei Trasporti” presso il Dipartimento di Ingegneria Civile dell’Università dell’Aquila. Il colloquio, inizialmente, fu tumultuoso. Il professore si sfogò con me per il fatto di non essere stato mai interpellato su un argomento di specifica sua competenza, soprattutto perché la Regione Abruzzo e sette dipartimenti dell’Università avevano costituito una struttura denominata CITRASM (Centro Interdipartimentale Trasporti e Mobilità Sostenibile). Abbiamo approfondito il tema ed abbiamo programmato di organizzare in Abruzzo un convegno mondiale sull’argomento (lui collabora con molte università straniere, soprattutto cinesi).
Negli ultimi mesi, forte dell’esperienza passata e di quella recente, ho cominciato a contattare alcuni responsabili di Istituzioni pubbliche e partiti politici: i risultati non sono stati incoraggianti, ma il fatto è comprensibile vista la complessità dell’argomento.
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Recentemente, la Regione Veneto, tramite CAV -Concessione Autostradali Venete- ha aggiudicato una gara per la realizzazione di un progetto di fattibilità, denominato HyperTransfer, per collegare Padova est al porto di Venezia, al consorzio costituito da Webuild e Leonardo.
È legittimo pensare che, se due colossi mondiali di questo calibro hanno deciso di dedicarsi all’alta velocità Hyperloop, evidentemente credono nelle sue potenzialità e in un futuro sviluppo di queste tecnologie.
Anche in Puglia, su iniziativa dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Ionio, è stata intrapresa una iniziativa analoga con la partecipazione di Rete Ferroviaria Italia, Ferrovie dello Stato e Ministero delle Infrastrutture per sperimentare nel trasporto ferroviario i sistemi di levitazione magnetica.
La trasmissione “Pixel” di Rai3 del 14 settembre 2024 ha annunciato la realizzazione in Olanda del primo prototipo al mondo di Hyperloop. Sono notizie confortanti che mi hanno convinto a portare avanti la proposta di un vero collegamento veloce Hyperloop tra Pescara e Roma.
In India stanno progettando un collegamento tra Delhi e Jaipur che coprirà la distanza di 275 km in 30 minuti ( oggi il treno impiega 5 ore).
L’IIT di Madras ha sviluppato una pista di 422 metri.
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Certamente, come dicevo all’inizio: ma per raggiungere un risultato, non vi è altro modo che sfruttare questa nuova tecnologia di trasporto. Perché si possa capire a fondo la validità del progetto basta riflettere su alcuni semplici dati:
- La distanza tra Pescara e Roma verrebbe coperta in 40 minuti circa.
- La distanza tra Sulmona e Roma in 21 minuti.
- La distanza tra Avezzano e Roma in 16 minuti.
Credo sia facilmente comprensibile che tempi di percorrenza come questi indurrebbero centinaia di migliaia di abitanti nell’area romana a traferirsi in Abruzzo creando di fatto un’area metropolitana in grado di unire il Tirreno all’Adriatico.
Giuseppe De Rita del Censis che ha sposato in pieno il progetto ritiene che si svilupperebbe una cosiddetta “area vasta” con capitale Roma simile a quella di Milano.
Ho ripreso in mano il progetto di Parco Religioso. Si tratta un parco unico al mondo per tutte le religioni. Il redattore del progetto è Davide Rampello curatore e realizzatore del padiglione Italia all’Expo di Milano e poi a Dubai.
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A questa vicenda sono legati due tristi episodi. Il prof. Rampello aveva chiesto al Presidente regionale Ottaviano Del Turco di potergli illustrare il progetto, l’incontro fu fissato per il 20 dicembre del 2007. Il prof. Rampello arrivò a Sulmona il giorno prima, a cena parlammo delle potenzialità del progetto e dei contatti che lui aveva avuto con i rettori di varie università straniere e con importanti architetti.
La mattina seguente ricevetti una telefonata con la quale il segretario di Del Turco, Quarta, mi informava che l’incontro era stato annullato, senza darmi uno straccio di motivazione. Cercai di insistere ma non ebbi successo, quindi mi inventai una bugia e accompagnai Rampello all’aeroporto di Pescara. Di ritorno a Sulmona decisi di andare all’Aquila per cercare di capire la ragione della disdetta dell’incontro e rimediare alla pessima figura che avevamo fatto. Aspettai oltre due ore nell’anticamera di Quarta, poi, fortunatamente, lo scorsi mentre andava via. Lo raggiunsi e gli chiesi spiegazioni. Con molto imbarazzo il segretario non mi rispondeva, ma insistetti con foga fino a minacciare di informare la stampa.
Mi disse che dovevo comprendere che bisognava sempre “conservare gli equilibri politici”: una spiegazione senza senso. Insistetti perché chiarisse, mentre lui, intanto aveva aperta la portiera della macchina per sedersi. Impedii che lo sportello si richiudesse e, fuori di me, cominciai a gridare. A questo punto si arrese, uscì dalla macchina, mi chiese di calmarmi e ci appartammo in un luogo più tranquillo. Mi confessò che un autorevole personaggio del PSI sulmonese aveva minacciato fuoco e fiamme se ci fosse stato un incontro con me, “notoriamente avversario del loro partito”. Mi fece anche il nome. Io non lo ripeterò rispettando il fatto che questa persona è deceduta.
Il secondo episodio avvenne circa tre mesi dopo. Ricevetti una telefonata dall’ambasciata tedesca con la quale mi si chiedeva la disponibilità ad incontrare a Berlino, un importante gruppo imprenditoriale. Accettai l’invito e raggiunsi la sede della società alla riunione erano presenti varie persone. Mi dissero che erano interessati alla idea del Parco Religioso e ciascuno di loro mi pose domande sulle varie componenti del progetto. Rimasero soddisfatti e mi dissero che erano disposti a compartecipare con una somma di 6 milioni, con un reciproco impegno a trovare altri investitori per raggiungere il totale del costo (51 milioni).
A fine riunione il presidente della società mi invitò a seguirlo nel suo studio e mi disse testualmente: “Il progetto è eccellente e fortemente remunerativo ma lei mi deve spiegare perché la sua comunità è così “ostile”. Rimasi sbigottito, soprattutto per il termine che aveva usato. Siccome il colloquio si svolgeva in inglese (il mio non era sufficientemente fluido) cercai di capire se la parola usata era stata proprio quella. Lui chiamò la sua segretaria di origine italiana che mi confermò che avevo capito bene il termine: “ostile”. Gli chiesi le ragioni di questa sua affermazione e la fonte dalla quale provenivano “le ostilità”. Lui mi diede un fascicolo in cui erano raccolte lettere inviate a quasi tutti i maggiori giornali , che criticavano sprezzantemente il progetto. Il più attivo era stato il Prof. Pelino preside del liceo scientifico, ed altri, tra cui un sindacalista, un insegnante molto noto in città (deceduto) ed altri ancora che preferisco non citare. Si potrà immaginare quanto rimasi male e quanto fosse stata grande la frustrazione che mi accompagnò lungo la via del ritorno.
Scelsi di non pensarci troppo, l’incontro mi aveva comunque dimostrato la validità dell’iniziativa e quindi andai avanti.
Chiesi un incontro con mons. Andreatta, all’epoca AD dell’Opera Romana Pellegrinaggi. Mi fece le sue congratulazioni e, pur chiarendomi di non poter partecipare finanziariamente al progetto, mi promise, qualora fossi riuscito a portarlo a termine, che mi avrebbe garantito almeno un pullman all’anno in visita da ciascuna dele 23.000 parrocchie con le quali l’Opera aveva stretti rapporti.
Fui felice di quell’incontro e del risultato ottenuto. Facendo un rapido conto realizzai che avevo messo in cassaforte 1.150.000 presenze. Ora però bisognava trovare 45 milioni.
Feci molti tentativi ma i risultati furono scarsi. Mi resi conto che il progetto aveva due grossi limiti: il primo, naturalmente, legato ai costi, il secondo legato alla mia solitudine, dal momento che dietro al progetto c’ero solamente io e nessun altro. Proposi il progetto al Comune di Sulmona. Il Sindaco dell’epoca Franco La Civita, già non entusiasmato dalla cosa, mi disse che avrebbe valutato. Dopo qualche giorno, mi comunicò che il suo partito, il PD, si era dichiarato contrario. Mi decisi allora a percorrere una strada che inizialmente avevo scartato. Avevo contatti con il mondo arabo in relazione alla mia esperienza in Palestina. Cominciai a contattare alcune associazioni e trovai una buona accoglienza. Il rappresentante di una di queste mi disse che avrebbe parlato della cosa ad un Emiro e che mi avrebbe fatto sapere.
La risposta non tardò: l’Emiro era favorevole, evidentemente aveva compreso che il Parco Religioso rappresentando tutte le religioni sarebbe tornato utile per ripulire un’immagine, che in occidente era legata al terrorismo.
Per la serie “non potrai mai essere profeta in patria”, avevo trovato un Emiro che con il suo fondo sovrano intendeva finanziare per intero l’opera. Avevo fatto tombola!
Mi sentii subito in dovere di acquisire il parere del Vaticano. Non fu un parere ostativo, ma ricevetti una raccomandazione alla prudenza, con particolare attenzione alla composizione del soggetto gestore.
Purtroppo, con l’attacco dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York le macerie seppellirono anche i finanziamenti a questo progetto.
Pochi anni fa mi fu chiesto di realizzare un progetto che potesse essere finanziato entro il limite di 12 mln di euro.
Tra le varie opzioni scelsi quella di recuperare la parte restante (10.000 mq coperti) dell’Abbazia di Santo Spirito al Morrone rendendola funzionale.
Realizzai un concept denominato “Spirito d’Abruzzo” che consisteva in un percorso, lungo il quale, venivano mostrate tutte le eccellenze abruzzesi offrendo al visitatore una visione complessiva della regione.
Erano previste una serie di strutture che avrebbero elevato l’Abbazia ad essere un centro polivalente , aperto a tutti i settori, tecnologicamente all’avanguardia.
Il progetto ottenne il finanziamento di circa 12 milioni.
Il Comune, individuato come soggetto attuatore, dopo aver traccheggiato per circa un anno alla fine rinunciò con la motivazione che l’Ente non aveva le strutture adatte per portare avanti un progetto tanto complesso, sopraggiunse il Covid e altre complicazioni che portarono alla perdita del finanziamento.
I responsabili di questa cocente sconfitta dovrebbero essere denunciati per danno erariale. Invece non successe niente di niente, alla sulmontina maniera.
La città aveva perso una grossa occasione che avrebbe portato in città molti turisti coprendo tutte quante le quattro stagioni.
La tristezza e la sfiducia aumentarono nel costatare che nessuno aveva reagito istituzioni, partiti, stampa, sindacato, associazioni di categoria, tutti vergognosamente in silenzio. L’ultima mia illusione, la speranza che qualcuno avesse potuto candidarlo per un finanziamento del PNRR, fu spenta sul nascere.
Nel mese di ottobre 2023, dopo una corte durata oltre due anni, riuscii a far venire a Sulmona Joe Letteri, figlio di genitori sulmonesi. Un personaggio quasi sconosciuto in città ma famosissimo nel mondo.
Joe Letteri è un creatore di effetti visivi. Ha giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo di tecnologie rivoluzionarie nel campo del CGI (Computer-Generated Imagery), ha vinto 4 premi Oscar con film di grande successo come Il Signore degli Anelli, Avatar, King Kong, Il Pianeta delle Scimmie. È noto per la creazione di personaggi digitali realistici e coinvolgenti, come Gollum in Il Signore degli Anelli e gli avatar nel film Avatar.
Fu accolto con tutti gli onori dalla Municipalità: discorsi, omaggi e scambi di auguri. Organizzai un pranzo, con i numerosi parenti, tutti della grande famiglia dei “Bacaruozz” (questo è il soprannome della sua famiglia di origine).
In Abruzzo e nel Mezzogiorno capita molto spesso che i Comuni ospitino personaggi illustri che hanno origini italiane e che hanno avuto successo. In genere tutto si esaurisce in cerimonie e convenevoli. Io, invece, penso che questi rapporti debbano essere curati, facendo leva sulla notorietà del personaggio proponendo loro di fare qualcosa che giovi alle comunità di origine. Con questo spirito chiesi al presidente Marsilio di incontrare Joe Letteri per stimolarlo ad aiutarci a far decollare Abruzzo Film Commission. In quella occasione chiesi a Joe Letteri se fosse stato disposto a sponsorizzare artisticamente un corso triennale, da tenersi a Sulmona, per formare giovani nell’uso degli effetti speciali nel cinema.
Lui diede la sua disponibilità e quindi ho contattai l’Università dell’Aquila e l’Accademia delle Belle Arti: quest’ultimo ha dichiarato la disponibilità istituire e gestire corsi speciali.
Ho ancora fiducia di potercela fare.
L’Italia in passato ha copiato dagli Usa il concetto di grande distribuzione e il nostro Paese si è riempito di supermercati; questo tipo di attività commerciale però da tempo è entrato in crisi, anche negli Usa i grandi colossi si stanno ridimensionando. Io credo che sia urgente innovare come già sta avvenendo in alcune aree avanzate del nostro Paese con lo sviluppo di Centri Commerciali Naturali (CCN).
In proposito ho realizzato un progetto che coglie bene lo spirito e la sostanza di questa nuova forma di attività commerciale.
Il CCN tende a mettere al centro le attività commerciali ma inserite però in un contesto pieno di altri stimoli e interessi: culturali, sportivi, etc., in grado di coinvolgere tutti i componenti di una famiglia dando a ciascuno i propri spazi. Il progetto per un CCN a Sulmona partirebbe con una forte implementazione del Parco Daolio organizzato come luogo di accoglienza, di svago, sport, piccole fiere tematiche, ristorazione leggera, dove chiunque potrebbe trovare interesse per le proprie esigenze.
Dal Parco si accederebbe con una scala elicoidale verso il Ponte Capograssi, dove verrebbero istallate strutture per mercatini. Si accederebbe poi, a Via De Nino, che sarebbe coperta all’uso di una galleria per eventi particolari in ogni stagione. La fine di via De Nino costituisce lo sbocco sul cuore del centro storico; i commercianti sparsi in città coglierebbero l’occasione della presenza di turisti, individuando con le loro organizzazioni di categoria motivi di attrazione e di marketing.
Per dare slancio alla parte nuova della città è prevista una importante modifica di Via Togliatti, che verrebbe “sdoppiata” in modo da accorpare in un unico spazio centrale le due aree verdi a destra e sinistra della via stessa. Se ne ricaverebbero due vantaggi: la razionalizzazione della viabilità a favore delle scuole con la realizzazione di parcheggi e la destinazione dello spazio centrale da destinare allo svago e all’accoglienza con piccole attività di commercio ambulante di qualità.
Per rimanere in tema di realizzazioni a breve termine ho lavorato su due progetti che ritengo particolarmente utili per rilanciare l’economia della nostra area. Sarebbero unici in Italia, d’avanguardia e con un costo molto limitato.
Il primo, per il quale chiedo scusa ma non potrò darle informazioni di dettaglio e tanto meno foto/video. Si tratta di una struttura che concentrerà in un unico centro la gestione di droni da utilizzare in tutta l’Italia per le più svariate attività, trasferimento prodotti, sorveglianza incendi, ricerca persone ed altro. Un’attività molto importante sarà il trasferimento rapido di sangue e organi umani. Per questa attività è stata recentemente ottenuta una speciale autorizzazione europea (al momento unica in Italia).
Il secondo progetto, denominato “Immersive Art”. In occasione dell’evento “Per la Maiella” ebbi modo di conoscere Massimiliano Siccardi, uno dei massimi esperti di installazioni artistiche ed esperienziali, allo scopo di creare effetti con luci speciali sui principali angoli della città. I suoi consigli furono molto utili e ottenemmo risultati eccellenti; la collaborazione tra noi si rafforzò quando pensai di realizzare in alcuni boschi del Parco illuminazioni speciali che ne caratterizzassero la loro bellezza. Il progetto non andò avanti a causa della mia cessazione dall’incarico di Presidente. Continuammo a sentirci perché avevo avuto modo di conoscere i grandi successi che stava avendo in molte parti del mondo (per saperne di più leggere l’intervista che segue):
Gli anticipai che avevo in mente di realizzare un progetto di “Immersive Art” in Abruzzo, mi diede il suo parere, i suoi consigli e mise a mia disposizione alcuni suoi collaboratori in Italia. Il tutto mi consentì di partorire il progetto che segue:
Intervista a Massimiliano Siccardi